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SCIABICA: MARCHETTI TRICAMO E MESSINA


Quando la luce lasciava spazio all'ombra. Compariva un cavaliere. Verso il palmeto. Una sagoma nera, in fondo alla striscia di polvere e di ghiaia, che partiva dai ruderi dei cantieri di Casebasse e riportava la mente alle porte del deserto, alle strade che conducono con le loro leggende di sultani e con le storie di battaglie di guerrieri berberi ai villaggi intorno a Marrakesh. Un cavaliere brutto di faccia, di occhi e di capelli, alto, deciso, vestito di nero e oro fastoso. Uno zingaro, dicevano, strano, misterioso.


Recensione di Vincenzo Bonaventura, giornalista professionista, critico teatrale e d'arte.


Libro storico, romanzo siciliano, affresco popolare, residuo di nobiltà e di cultura antica: queste e altre definizioni potrebbero essere perfettamente calzanti per riferire di “Sciabica. Storia siciliana di vizi, virtù, trappole, passioni e disincanti” (Editore Ibiskos Ulivieri. Collana I sicomori) di Giuseppe Marchetti Tricamo che, per la prima volta, dopo tanto altro, si cimenta con la narrativa. Un esordio o, comunque, un arrivo tardivo sulla scia di quanto già capitato a Gesualdo Bufalino e Andrea Camilleri, ma che anche per lui promette, anzi richiede, un futuro, interessante, cammino.


Marchetti Tricamo è stato un importante dirigente Rai, a lungo direttore della casa editrice Rai Eri, docente alla Sapienza, fondatore e direttore della rivista “Leggere:tutti”, alla quale ho avuto l’onore di collaborare, ma nel centro della sua interiorità è rimasto messinese, un abitante dello Stretto com’era, piuttosto che della città com’è oggi.


Va chiarito subito che “Sciabica” non è un libro solo per messinesi e neppure solo per siciliani, al contrario vi avverto un senso epico della storia e delle generazioni che mi ricorda “Cent’anni di solitudine”. Ma per chi, come me, sullo Stretto ci è nato ha una fascinazione particolare e forse anche un po’ triste. Perché il presente dell’autore nel suo racconto, la Messina che è del romanzo, quella ricca di idee e di speranze del dopoguerra, ci fa intravvedere la Messina che sembrava potesse essere e che invece non è diventata. Perché, dispiace dirlo, le “due” città, quella possibile e quella reale, non coincidono. La cultura del fare affascina il protagonista don Pietro Guevara, ultimo rappresentante di una famiglia nobile decaduta, che certo non l’ha nel proprio dna, perché ne è simbolo il nipote Filippo (figura evidentemente autobiografica) che lascia lo Stretto per realizzarsi («dodici vagoni di speranza» sul ferryboat). Eppure dentro il giovane c’è l’idea che quel luogo magico è destinato a rimanere tale, anzi a ritrovare le antiche grandezze di cui racconta don Pietro. Così il disincanto, vizio-virtù dei siciliani - talvolta gattopardianamente frenante, tal’altra propellente per affrontare nuove strade senza la paura della caduta di altrimenti pericolose illusioni – si è trasformato in appiattimento, ovvero in una scusa per non essere reattivi.


La sciabica, rete dei pescatori, del titolo raccoglie invece con le sue maglie un fermento di rinascita di cui la città (che in questo caso diventa esemplare di tanto vissuto nel mondo) trae le forze da un passato, come dire, presentificato: nel senso che la forza di reagire, di rinascere, di combattere contro torti e “invasori” sembrava in quel dopoguerra linfa vitale ereditata senza discussione. Lo Stretto di Marchetti Tricamo, soprattutto vissuto nella riviera di Paradiso, è ancora quello in cui ‘Ndrja Cambria, il protagonista di “Horcynus Orca” di D’Arrigo, è tornato, ma la putrescenza dell’orca è stata superata appunto dalla voglia del fare, per la quale “vizi, virtù, trappole, passioni e disincanti” sono difetti sì, ma anche e soprattutto carburante per ricominciare e anche per distinguersi modernamente da un passato, fondamentale e apprezzato, ma da lasciare indietro. Quando l’autore racconta in brevi e drammatici spezzoni il terremoto del 1908, si comprende come da quelle rovine si spalancasse il futuro: ecco, oggi sembra che a mancare sia proprio il senso del futuro, forse c’è un altro tipo di macerie.


L’affresco di questo romanzo si caratterizza anche per la grande qualità della scrittura: frasi brevi, ripetizioni cadenzate che quasi consentono una lettura metrica della prosa, un uso assai efficace del siciliano (accompagnato da un utile glossario), molto più sincero degli accomodamenti di altri romanzi famosi e di grande successo popolare e quindi, proprio per questo, capace di parole evocative e illustrative, di grande forza descrittiva. Un esempio? Gli «specchi diventati ormai allumacati» della bottega di un barbiere.


P.S. - Mi ha fatto piacere trovare nelle pagine di “Sciabica” un bel ricordo di Carmelo Antonio Rao, insegnante e direttore didattico, ma anche, se non soprattutto, ottimo giornalista, capace di raccontare il calcio a modo suo. Un “personaggio” di Messina che mi è stato vicino nei primi passi all’interno di una redazione.


Tratto da un post su Facebook di Vincenzo Bonaventura



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