( fine aprile ’15) …metti un pomeriggio a Salerno… …dialogando con Mario Cataudella di memorie, mappe e narrazioni.
I geografi, raccontano la terra, abitano le distanze. L' etica del sapere è l' etica della vita, dei perché. Per questo, ad esempio, di fronte ad apocalissi che sembrano non prefigurare nuova terra, nuovi cieli, nessuno che profetizzi cose nuove in tempi vicini, solo ancora dolore degli uomini, disumanizzazione e postumanità, in una “paura che mangia l'anima”, avvertono la necessità di interrogarsi su territori di memoria sedimentata, su geografie del vissuto. Perché è la storia degli uomini che diviene spazio vissuto, paesaggio: la lezione di "les annales", di Gambi, Sereni, del più prossimo Farinelli, di molti altri, Dionisotti, soprattutto Eco poi Asor Rosa, anche Pedullà, Luzzatto esprime come sostanza quella di una storia che scrive la geografia, dove regole e prassi di convivenza, modi di produzione, disegnano iconografie, palinsesti complessi, sedimentate fase culturali, narrazioni di lucida essenzialità.
Lucio Gambi, nell’introdurre la ricchissima Storia di Einaudi, osserva ad esempio che la Sicilia “…si distingue a volte in modo esclusivo per idiomi, costumi familiari e sociali che risalgono ad epoca remota: le situazione e le forze che impediscono ora una sua ristrutturazione…”. In una riflessione del dopo guerra, l’Aglianò, poi condiviso da Sciascia, riprende un tema che sarà a lungo dibattuto, quello che, allora, precipua preoccupazione fosse quella “di mantenere inalterati gli interessi di perpetuare la vecchia struttura feudale”: da quella cultura si perpetueranno blocchi clerico-agrari e mafiosi che sostanzieranno separatismo, utilizzazione del banditismo, autonomia regionale "esagerata". Un’ autonomia che, con il suo derivare dallo Statuto Albertino, non acquisirà lettera e valori della costituzione repubblicana. Dopo Portella della Ginestra, addirittura, per quella cultura, che dà sostanza alla mafia e le consentirà vie parlamentari al potere; senza che questo trovi un complessivo generale contrasto. Certo si manifesteranno consapevoli, dolorosissimi momenti di rottura, ma, ogni volta saranno riassorbiti dalla lunga durata del termidoro di società e consuetudini di governo, nel permanente e consueto rito delle responsabilità rimosse. Il mantra della diversità, rafforzato dalle peculiarità statutarie, ha perpetuato velleitaria competizione, estenuanti enfatizzati, soprattutto vittimistici, bracci di ferro.
Lucio Gambi, nell’introdurre la ricchissima Storia di Einaudi, osserva ad esempio che la Sicilia “…si distingue a volte in modo esclusivo per idiomi, costumi familiari e sociali che risalgono ad epoca remota: le situazione e le forze che impediscono ora una sua ristrutturazione…”. In una riflessione del dopo guerra, l’Aglianò, poi condiviso da Sciascia, riprende un tema che sarà a lungo dibattuto, quello che, allora, precipua preoccupazione fosse quella “di mantenere inalterati gli interessi di perpetuare la vecchia struttura feudale”: da quella cultura si perpetueranno blocchi clerico-agrari e mafiosi che sostanzieranno separatismo, utilizzazione del banditismo, autonomia regionale "esagerata". Un’ autonomia che, con il suo derivare dallo Statuto Albertino, non acquisirà lettera e valori della costituzione repubblicana. Dopo Portella della Ginestra, addirittura, per quella cultura, che dà sostanza alla mafia e le consentirà vie parlamentari al potere; senza che questo trovi un complessivo generale contrasto. Certo si manifesteranno consapevoli, dolorosissimi momenti di rottura, ma, ogni volta saranno riassorbiti dalla lunga durata del termidoro di società e consuetudini di governo, nel permanente e consueto rito delle responsabilità rimosse. Il mantra della diversità, rafforzato dalle peculiarità statutarie, ha perpetuato velleitaria competizione, estenuanti enfatizzati, soprattutto vittimistici, bracci di ferro.
Mentre sarebbe convenuto, lo scriveva tanti anni fa Guido Corso, svolgere all’interno l’autonomia (la qualità del governare e soprattutto dell’amministrare) guardando all’esterno per attingere idee, prospettive, stili di vita, di convivenza da immettere nella realtà siciliana, agita per lo più da violenza, parassitismi, sonnacchiose frustrazioni, accentuato deficit di cittadinanza. Ma oggi, quasi avessimo avuto la capacità di inquinare tutto il sistema paese, (del resto perché non ricordare che Dossetti lo aveva profetizzato su Cronache Sociali subito dopo Portella della Ginestra ?) che quasi tutte le regioni sono ad un punto di non ritorno sui cammini del degrado, sembra veramente un ossimoro attingere da loro come punto essenziale nella ristrutturazione del nuovo Senato, anche se nella logica dello sminuire la bicameralità.
Mah…che succede? Non riusciamo a capire se c’è del metodo in questa follia. Proprio oggi che persino la riforma prodotta come necessità da noi, quella dell’elezione diretta di sindaci e presidenti sta dimostrando che non è riuscita a modificare il modo perverso della condizione dei partiti e della politica. Ed era per questo che avevamo voluta sperimentarla dopo le stragi del 92. Ma ecco il punto. Con quel sapore di morte in bocca abbiamo trovato momenti di eccellenza, non moltissimi in verità, e poi quasi dappertutto la messa in crisi della speranza di nuova confidenza tra cittadini e istituzioni, sottratte le indicazioni alle iconostasi e alle combines dei poteri occulti proprio per era sembrato di grande e dirompente significato superare la a-costituzionalità che ormai sostanziava queste procedure: the power at the next door, appunto.
Ma qui non voglio proporre sintesi risapute e approssimate. Riparto dai miei luoghi. Ristudiare la Sicilia significa pensarla come sistema dove, per cause molteplici antiche e nuove, la mafia è diventata struttura e quindi cultura. I vincitori hanno vinto perché siamo di fronte a notevoli aree di assimilazione che, proprio perché culturali, è difficile smantellare. C'è un ground zero nella regione, pieno di vincoli, di regole, di denaro facile, di promesse, di progetto. Viviamo ancora e di più nel transito da un capitalismo primitivo a un capitalismo redistributivo e senza regole, sostanzialmente discrezionale nei suoi percorsi, comunque e sempre «di eccezione», spesso anche a utili finalità. Siamo più in là di Merton e della sua teorizzazione sulla corruzione necessaria a sciogliere meccanismi ingrippati, siamo alla previsione di modi - aggiuntivi se non esclusivi - di produzione che si preparano a ridare ulteriore senso ad antropologie mai in realtà scalfite nella perdurante logica di cittadinanza altra.
“Alla figura tipica del mafioso campiere - studiava Eric J.Hobsbawm - si è semplicemente sostituita quella del mafioso proprietario terriero e affarista”. Poi, lo smantellamento delle qualità, pur solo formali, delle aristocrazie, dei mastri don Gesualdo e del notabilato delle professioni urbane, ad opera dell’avanguardismo fanfaniano negli anni 50, e della necessità epocale che accettava come male minore l’essere cristiani solo in franchising, favorì rapide cospicue gravitazioni sollecitate dalla specialità dell’autonomia regionale. La mafia così potè rapidamente intessere del suo modo di produzione, intriso di sapienti affectio societatis e pactum sceleris, il modernizzarsi, l’ arricchimento disordinato e iconoclasta, che si identificarono col potere delle istituzioni al governo delle città e dei territori, dei sistemi costieri e dell’isola a lago interno, per usare una felice espressione di Lucien Fevbre. Certo con regole, ma regole altre. Antiche e sicuramente altre, di diverso ethos. Poi barbarie e stragi, quindi una mafia apparentemente light, “truccata di vestimenti leggeri”, programmerà, studierà, produrrà a rischio zero solide convenienze sostanzialmente criminose.
E noi ci chiediamo se la lucidità dei ricordi sia un bene da coltivare o se sia auspicabile, in realtà, la nebbia che a volte li avvolge: è questo un interrogativo sul quale si torna via via più insistentemente e sul quale torno spesso anch’io. Anche Leopardi in una nota dello Zibaldone scrive di ricordi che si succedono così rapidamente da apparire simultanei, e che sempre portano con sé abbondanza di pensieri, di immagini, di emozioni. Una folla di sensazioni così impetuose che non siamo capaci di abbracciarle tutte. Da un ricordo possono piovere immagini, epifanie: è il tempo ritrovato, che rivisitiamo nelle sensazioni affioranti dal tempo ormai perduto. È stato Calvino a raccontarci come attorno a un’immagine ne nascano molte altre, ed è come se si formasse un campo di analogie, simmetrie e contrapposizioni. Poi la scrittura, la narrazione, cercherà l’equivalente dell’immagine visiva in uno sviluppo che tende a essere coerente, tirando fuori la propria noità da una molteplicità di possibile divenire che tesse assieme sensazioni e pensieri. Si crea il paesaggio della memoria, che appare distante dal presente. Il paesaggio-memoria scandisce l’accaduto con tutta l’irrevocabilità del giudizio, che inesorabile fissa ognuno alla sua storia.
Ma è nell’abitare questa distanza che forse sarà possibile cogliere lo spessore della mobilità che si accompagna ai percorsi mentali, che poi non sono altro che il tentativo di radiografare le forme storiche alla ricerca delle loro forme originarie. Tentando magari impossibili mappizzazioni. È la ricerca di un approdo al nocciolo della vita che si è persa, della vita che abbiamo vissuto, che provvede a riordinare i ricordi dando loro significato e spessore. L’immaginazione trova il sentiero dove imbucarsi, poi si rassegna a salire per strade impervie. “Ma prima di essere narrato sembra quasi che il racconto non ci sia: nasce con le parole che lo narrano e - dice Giuseppe Longo - insieme ad esso nascono i suoi personaggi, il suo tempo, lo spazio”, in una nascita simultanea intrisa delle nostre esperienze, nell’alternanza di due regimi, quello creativo o selettivo e quello semiautomatico in cui la narrazione procede in modo più o meno meccanico.
La Sicilia che ci possiede diviene allora ricerca di una prigione perfetta dentro un territorio perfetto: come fosse un impossibile ricostituirsi del paradiso perduto. Con i suoi labirinti da ripercorrere, e le ragnatele fatte di geometrie che ti soffocano. Come se, dopo le tentazioni di fuga in avanti, un nuovo bisogno di approdo ci riconducesse agli antichi tracciati. Ma era un approdo che solo pochissimi avevano promesso. Uccisi o posti ai margini. Adesso mi ritrovo solo con molti più anni dentro, ma leggero, senza obblighi di dover rappresentare palingenetici rivolgimenti, di dover corrispondere ad attese: l’essere stato outsider integrato, abbastanza marginale nei giochi collettivi, riguarderà solo me, in un fatale e mediocre smentirsi insieme, tra interpretazioni ed eventi. L’aver detto in aspra consapevolezza (appena ovattata dalle buone maniere dei riti pubblici) che il re era nudo era stato colto, dopo iniziale sbigottimento, come violenza rispetto ad un ordine solidificato. Dopo i tantissimi anni a mio modo impegnati, era il misurarsi con i silenzi, con le macchie di sangue e d’inchiostro. Era stato anatema, con gli inutili effetti di una bestemmia. Le grammatiche da pensiero unico non consentivano margini diversi. Ed è chiaro che tutto questo non potrà non diventare narrazione e quindi andare su libri, dove se no? Chi potrebbe disegnare mappe di una storia che accade, mentre accade? E’ il territorio-memoria che ci obbliga a narrazioni di storia sedimentata.
Ci ricorda Franco Farinelli che "oggi l’universo è una collezione di storie, e la Terra fin dall’inizio un insieme di modelli, per mezzo dei quali abbiamo messo ordine e stabilito relazioni tra le cose di cui si compone “lo spazio riempito di cose terrestri”… L’intera modernità è stata costruita … attraverso la riduzione ad essa del mondo, ed è in tal modo che la cultura occidentale ha inventato la Terra. Ma oggi il funzionamento del mondo non dipende più dallo spazio e dal tempo, che per la scienza esistono soltanto nella forma in cui esistono sulle mappe… Se tutti i nostri modelli sono stati, direttamente o indirettamente, di natura cartografica, ciò vuol dire che allora dobbiamo urgentemente procedere alla reinvenzione della Terra". E sarebbe necessario ma certo non solo per gratificare i cartografi.
Ricordo Calvino che, appunto, decenni fa sul Menabò, definì la sua come “sfida al labirinto”. Parlò di questa immagine del labirinto “come immagine del disordine, del caos”. E per questo la sua vita “è quella di un uomo che con la sua immaginazione e il suo lavoro ha voluto contribuire all’autocostruzione continua dell’universo”. Per questo scrive: “Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra e guarda il mondo che si estende in tutta la sua vastità, lì davanti a lui. Ebbene, c’è una finestra che si affaccia sul mondo. Di là c’è il mondo, e di qua? Sempre il mondo, cosa altro volete che ci sia?...forse l’io non è altro che le finestre attraverso il mondo che guarda il mondo.”
Per questo anche noi diciamo che è nella narrazione che finiamo per individuare modelli conoscitivi che “permettono di intuire la realtà nel suo apparente disordine e sembrano dare un senso al fatto di esistere”. Cosa altro oltre la narrazione? Sarà per questo che Borges scrivendo “Del rigore della scienza”, in "Storia dell’infamia", arriva al paradosso che se volessimo mappizzare realmente il mondo dovremmo realizzare impossibili mappe dell’impero che avrebbero l’immensità dell’impero, in una perfetta coincidenza. Già, la mappa dell’impero in scala 1:1. Umberto Eco sta, lucidamente spiritoso, al gioco. Nel suo secondo Diario minimo, discutendo della possibilità teorica della mappa in scala 1:1, tra molto altro, dice: che “…dal momento in cui la mappa è istallata ricoprendo tutto il territorio, sia essa stessa stesa o distesa, il territorio dell’impero è caratterizzato dal fatto di essere un territorio integralmente ricoperto da una mappa…a meno che sulla mappa non fosse collocata un’altra mappa…e il processo sarebbe infinito…”.
Ed è chiaro a questo punto che questi paradossi del cartografare non possono non riportarci alla complessità del mondo, è vero, ma anche alla illuminante semplificazione delle possibilità narrative. Maria Corti osserva che Calvino in fondo non fa che aspirare a poter “offrire delle vicende che dovrebbero [potrebbero. n.d.a.] raccontarsi da sole”, come per generazione spontanea. E così siamo arrivati a Vittorini che ci descrive alcuni racconti di Calvino, a seconda delle gamma espressiva, come “un mazzo di racconti che in parte apparvero spontanei e selvatici: dei fiori di campo, e in parte un po’ sforzati o comunque coltivati: dei fiori di serra”. Non sta tutto qui il calviniano “trasformare in racconto il mondo”? Un narrare la geografia allora come un accadere che segna luoghi ed eventi del nostro vissuto. Dove la realtà non può che essere raccontata nella sua intera complessità, anche nella durezza e nei drammi del vivere, dove la condizione umana, e degli spazi che impregna, si manifesta in tutto il suo senso senza schermi consolatori, e nemmeno “astratti furori”. In fondo un painted speech.
Giuseppe Campione