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NUDITA'. IL CHIAROSCURO PERMANENTE DI AURETTA STERRANTINO

In prima assoluta, al Teatro Savio di Messina, domenica 17 Aprile, in doppia replica (ore 18.00 e ore 21.00) debutta la nuova produzione di QA - Quasi Anonima Produzioni e ultimo spettacolo della Rassegna teatrale "Atto Unico. Scene di Vita. Vite di Scena". 



Lo spettacolo teatrale "Nudità. Chiaroscuro permanente" nasce da uno studio sul pittore russo Vassily Kandinskij, creatore della pittura astratta, e sul compositore viennese Arnold Schönberg, uno dei primi ad applicare nella musica il metodo dodecafonico. Entrambi artisti che sono andati oltre le regole nelle loro arti, il primo creando la consistenza tonale del chiaroscuro e il secondo uscendo dal sistema tonale. Ed è proprio sul chiaroscuro, fondato sulla modulazione dei toni d'ombra, che la regista e drammaturga Auretta Sterrantino avvia una sorta d'indagine dell'animo umano, andando alla ricerca di quel raggio di sole rivelatrice di una volontà di essere e, quindi, di esistere per affermare la propria identità. In scena gli attori Marialaura Ardizzone, Oreste De Pasquale e Livio Patrizio Bisignano che interpretano rispettvamente Sibilla, Maestro Kappa e Maestro Esse, tre personaggi molto simili eppure molto diversi, accomunati da una forza indomabile che li stringe in un’implacabile ansia di ricerca. I tre si scrutano, si sfidano, si spingono reciprocamente oltre il limite. Vogliono vedere ma non essere visti. Nella penombra che li avvolge, un confronto serrato e senza scampo li condurrà a svelare ogni cosa. E niente sarà più come prima. 

Ad accompagnarli in questo percorso d'introspezione la scenografia di Giulia Drogo, le foto di scena di Domenick Giliberto e le musiche originali composte dal maestro Vincenzo Quadarella che spiega: «Dopo la lettura del testo, denso di emozioni, ho cercato di impostare il lavoro sulla stessa falsa riga. La musica e i colori per me hanno da sempre un collegamento profondo, quindi è stato facile immaginare percorsi colorati e che si immergessero nel testo, navigandone le tessiture, ed emergendo a tratti per identificare i colori stessi. È la prima volta che concepisco la musica di uno spettacolo come un’intera opera. In realtà non voglio esattamente comunicare qualcosa, ma esaltare alcuni punti del testo ed accompagnare lo spettatore lungo il percorso che la regista ha voluto creare. Il rapporto tra musica e messinscena è intenso, intimo. Per scrivere, ho visto colori. Mi sono immaginato davanti ad una tela bianca, e su di essa ho potuto scrivere note. Ho provato a sentire e contemporaneamente a “vedere” letteralmente la messinscena, creando un percorso emotivo agganciato, a volte saldamente a volte traballando, all’intensità del testo».

Le riflessioni di Auretta Sterrantino su "Nudità. Chiaroscuro permanente" e sul teatro: «Una serie di coincidenze mi hanno spinto a decidere di mettere su pagina le suggestioni derivate dallo studio di questi grandi maestri. Quando parlo di coincidenze non mi riferisco al caso, ma a elementi di varia origine e natura che presi nel loro insieme e analizzati in relazione a un data situazione incidono su di essa in modo significativo. In questo caso, l’insieme degli elementi ha inciso su me e la mia formazione e lo ha fatto lentamente e silenziosamente nel corso degli anni. Così, quando mi sono resa conto che quest’anno ricorrono i 150 anni dalla nascita di Kandinskij, ho capito che era un momento troppo importante per lasciarlo passare, scorrere. E poi il Maestro aveva bussato già da tempo alla porta per entrare nel mio 2016 attraverso Giulia Drogo, con le scenografie di InSomnium. La scoperta di una corrispondenza tra lui e Schönberg e la lettura dei loro saggi, delle loro composizioni sceniche, lo studio dello “Spirituale dell’Arte”, l’ascolto delle opere di Schönberg, mi ha portato lontano e mi sono ritrovata a leggere di Skriabin, ad ascoltare Von Hartmann e poi Gurdjeff. Ed ecco che è nato “Nudità. Chiaroscuro permanente” che per me era prima un titolo e un’istanza. Ho fatto quel che essi richiedevano: mi sono spogliata da ogni pregiudizio e ho aperto i sensi all’ascolto. Così è scaturito questo testo che dialoga con musiche, scene e costumi. 

Le difficoltà nella stesura del testo nascono principalmente dal mio modo di scrivere che non ha premeditazione. Io scrivo quel che esce fuori, sgorga. E mentre scrivo studio ciò che scrivo, epurando il flusso di tutto quello che rischia di portarmi fuori strada o che raccoglie stimoli non utili al lavoro in corso. Dunque la difficoltà sta nel fatto che a volte non sento. Dunque non posso andare avanti. Devo necessariamente liberare i sensi. Una volta finito il processo di scrittura, che è sempre definitivo arrivati alla pagina, il testo viene poi limato solo dopo le prime letture perché l’ascolto mi aiuta a sentire le stonature. A quel punto inizia il mio approccio da regista. Inizio a studiare. A studiare, a farmi domande, a fare domande, a indagare il testo come se fosse un giallo. Cerco la mia pista. E così trovo il colore dello spettacolo, il suo suono, la sua atmosfera, persino la sua forma. Cerco nelle sue pieghe e tento di tirar fuori, con la costruzione della messinscena intesa nella sua totalità, tutto quello che dal testo vuole uscire, oltre la parola. In questo senso per me è impensabile lavorare senza confrontarmi con tutto il cast. Sono necessari i tavolini con lo scenografo e con il musicista, tanto quanto quelli con gli attori. Perché è un’indagine che facciamo assieme, mentre io dirigo. Per Nudità, in particolare, la difficoltà è stata quella di riuscire a trovare un equilibrio fra la vocazione metafisica del testo e la necessità di creare un ponte con la realtà. Una realtà che non rappresentasse però il quotidiano (non amo il quotidiano a teatro) 

Vorrei che arrivasse a tutti l’urgenza di accettare la nostra nudità. La nostra capacità di entrare in un contatto profondo e fruttuoso con tutto ciò che ci circonda. Per farlo dobbiamo passare attraverso l’accettazione, spogliandoci da ogni menzogna, ogni impalcatura. Liberandoci da ogni catena. E imparando che essere nudi non significa aver forme armoniose e pelle di pesca, ma essere ruvidi. Tirare fuori ogni nodo, ogni contrasto, ogni contraddizione. Significa porci di fronte ad ogni nostro dubbio, non con la pretesa di risolvere o capire tutto, ma con l’intenzione di fare domande ancora e ancora. E significa ancora affondare in una ricerca che non può avere fine ma che è l’unica sorgente che possa dissetarci. Fare teatro è una scelta. Non si finisce con il fare teatro, non capita, non è frutto del caso o di una congiuntura astrale che influenza il tuo ascendente. E, in quanto scelta precisa, fare teatro è una responsabilità. Una responsabilità che chiama a un altro tipo di scelta: che tipo di teatro fare. Il che a sua volta sottende una domanda di fondo: perché lo si fa.

Il nostro lavoro si concentra sul disagio, sulla necessità di affrontare sensazioni, pulsioni e sentimenti “scomodi”; sulla necessità di aprire gli occhi rispetto a delle condizioni di fondo che riguardano ciascuno di noi, e rispetto alle quali si sceglie spesso la strada del “facciamo finta che non esista”, “non è mai successo”. È difficile mettersi di fronte a tutto quello che ci ferisce e che ci spaventa, è difficile anche per noi come gruppo, tanto che abbiamo bisogno durante le prove di esorcizzare per poter sopportare il carico di quello che facciamo. Tanto difficile che a volte dopo gli spettacoli non ci vediamo e non ci parliamo per giorni. È difficile, ma per noi necessario. Non potremmo fare diversamente. Io ci ho provato ma non ci riesco. Non fa parte di me. Il teatro è parresia, mezzo di espressione libero e assoluto e, in questo senso, noi cerchiamo di interpretarlo. E perché sia così necessita di un confronto con il pubblico e con gli addetti ai lavori. Perché in teatro tutto è fluido e niente è mai uguale a se stesso".  

Per informazioni e prenotazioni: 349 6852379; attounicoteatro@gmail.com


Antonella Di Pietro

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