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RACCONTI DI UN COMUNISTA DI PERIFERIA. L'EREDITA' POLITICA E UMANA DI TINDARO LA ROSA. PREFAZIONE DI SIMONA MAFAI

Al Feltrinelli Point Messina la presentazione del libro "Tindaro La Rosa. Racconti di un comunista di periferia".



“Racconti di un comunista di periferia”, il libro postumo di Tindaro La Rosa, curato da Santi e Rosa Elisa La Rosa e pubblicato da Lombardo Edizioni, sarà presentato al Feltrinelli Point Messina martedì 9 dicembre alle ore 17:30 in una iniziativa organizzata da CIA Messina e da Flai-Cgil Messina. Interverranno Santì La Rosa, Giuseppe Campione, Giovanni Mastroeni, Pippo Panarello e Gino Savoja. Il libro, ripercorre mezzo secolo di storia, di cui Tindaro La Rosa, storico storico leader milazzese del Pci e dirigente sindacale, è stato protagonista. Da quando, nel 1943, ad appena 19 anni, prese la tessera del Partito Comunista, fino alla sua scomparsa, il 22 novembre 1993. E' stato anche segretario della Camera del Lavoro di Milazzo, vicesindaco di Milazzo e, per 45 anni, consigliere del Comune di Milazzo che gli ha intitolato una via cittadina. 

Di seguito la prefazione al libro “Racconti di un comunista di periferia”, a cura della Senatrice Simona Mafai, storica esponente della sinistra italiana:

"A venti anni dalla morte di Tindaro La Rosa, osserviamo con occhi disincantati la situazione politica italiana, le condizioni del movimento sindacale e dei partiti: movimento sindacale e partiti cui Tindaro ed altri compagni e compagne diedero nel secolo scorso il loro impegno, la loro intelligenza, la loro vita. Oggi sindacati e partiti sono considerati quasi inutili da un’opinione pubblica indignata, ma spesso superficiale. L’indignazione nei confronti della politica italiana è in buona parte giustificata, perché troppi scandali, personalismi e falsità si sono registrate negli ultimi decenni; ma la sola sfiducia non produce nulla di positivo e, accompagnata al disimpegno personale, lascia le porte aperte al primo avventuriero e mina alle radici la vita democratica del paese. Ricordare e documentare la vita e l’opera di Tindaro La Rosa non è quindi solo l’omaggio a un cittadino esemplare, ma l’invito a riflettere sulla storia del nostro paese, e l’esortazione, a ciascuno e ciascuna di noi, ad assumersi, pur nella situazione mutata, un’analoga responsabilità civile.

Tindaro La Rosa compie una scelta di vita fin dalla prima giovinezza: già nel 1943-44, a meno di venti anni, tiene un diario sulle vicende internazionali e locali, e – forse oscuramente consapevole di quel che sarà il suo futuro – registra i primi incontri, quasi clandestini, per la formazione dei primi nuclei del Partito comunista, ed annota il suo primo viaggio fuori dalla Sicilia (nel 1947) alla Conferenza nazionale di organizzazione del PCI. Sono gli “appunti personali”, riprodotti tra i suoi scritti in questo volume. Segue una crescente, molteplice e impegnativa attività, soprattutto a Milazzo e nella piana: la mobilitazione dei coloni per una più giusta divisione dei prodotti agricoli (mobilitazione che durerà molti mesi, con scioperi generali, e scontri aperti con la mafia), l’organizzazione delle varie categorie di lavoratori, dai più emarginati (scaricatori di porto, poi uniti in cooperativa, e gelsominaie, che conquisteranno per la prima volta un contratto di lavoro), agli operai edili, chimici e metallurgici, alle lavoratrici ortofrutticole. 

Diventa segretario della Camera del Lavoro di Milazzo, entra nella direzione provinciale del Partito Comunista Italiano, svolge un’intensa attività per la immissione di nuovi insediamenti industriali nella piana, coinvolgendo altri partiti, organizzazioni e gli stessi organi istituzionali. Fin dal 1946 è eletto al Consiglio comunale, dove assicurerà per oltre quarant’anni una presenza vigilante, critica e propositiva. Promuove e dirige i molteplici movimenti per i diritti sociali e civili: accesso alla pensione, all’assistenza sanitaria, alla casa, al divorzio e all’interruzione volontaria della gravidanza. 

Assume le iniziative in difesa dell’ambiente. Sono gli anni oggi considerati dagli storici “anni del miracolo”, durante i quali il nostro paese, uscito dalle tragedie del fascismo e della guerra, fa decadere, con il voto, la monarchia, fonda la Repubblica, vara la Costituzione, cresce in ogni campo. In poco meno di mezzo secolo l’analfabetismo è praticamente sconfitto, il prodotto interno lordo e il reddito medio per cittadino aumentano considerevolmente, la mortalità infantile scompare, la speranza di vita cresce di decenni. È un progresso enorme. Ma non è stato un colpo di fortuna. Esso è stato determinato dalla eccezionale spinta di speranza e di energie verificatasi in quegli anni, di cui sono stati principali autori i ceti sfruttati ed emarginati, che avevano voluto conquistarsi una vita
dignitosa e libera. Ogni paese d’Italia, ogni borgata aveva alzato la testa e chiesto di migliorare le proprie condizioni di vita.

Tanti giovani come Tindaro (uomini e donne), avevano lasciato a metà gli studi (rinunciando a future carriere professionali e accademiche), si erano improvvisati dirigenti sindacali e politici, avevano dedicato il loro tempo e la loro intelligenza al mondo del lavoro, per il suo riscatto. Andavano ad incontrare braccianti ed operai sui campi o all’uscita dei cantieri, li chiamavano a riunirsi nelle aie o in qualche magazzino abbandonato, bussavano alle case, parlavano a tu per tu con i lavoratori e le loro famiglie, contestavano convinzioni ed abitudini antiche basate su rassegnazione e sottomissione, immettevano fiducia nelle forze di ciascuno e ciascuna. Contrastavano a viso aperto i padroni, si opponevano ai mafiosi, fronteggiavano le forze dell’ordine (che nel primo dopoguerra si collocavano sempre dalla parte dei potenti), denunciavano gli amministratori corrotti o incapaci. Collegavano anche le più modeste rivendicazioni particolari ad obbiettivi generali di avanzata democratica e di pace. 

Essi seppero anche resistere all’offensiva delle istituzioni ecclesiastiche che lanciavano contro di loro scomunica e calunnie, negando battesimi, matrimoni e funerali religiosi (ci sono voluti molti anni per giungere a Papa Francesco!), ma essi non caddero mai nell’anticlericalismo, e manifestarono sempre rispetto per le celebrazioni e i riti religiosi amati dal popolo, come l’arciprete di Milazzo riconosce a Tindaro, nella omelia letta ai suoi funerali, che pubblichiamo. Mi piace chiamare questi giovani (che poi divennero uomini e donne adulti ed autorevoli, ricoprendo responsabilità politiche a diversi ed importanti livelli) altrettanti “missionari civili”. Non credo che tale definizione sia esagerata. A loro, e ai tanti come loro, che agirono in modo simile in altre parti d’Italia, si devono in buona parte le conquiste di civiltà e di libertà, di cui tutti godono oggi.

Come mai questo flusso democratico a un certo punto si è fermato, dando avvio ad un percorso discendente per il paese (sia per l’economia, sia per la vita politica, sia per la moralità dei singoli)? A causa di quali eventi ciò è avvenuto? Cercheranno di rispondere a questo interrogativo politologi e storici, dando le proprie diverse e complesse spiegazioni, ma se Tindaro, e gli altri protagonisti della vita sindacale e politica di quegli anni fossero ancora vivi saprebbero abbozzare una risposta.

Molti fatti hanno modificato negli ultimi decenni la realtà sociale italiana (e non solo italiana). Tra questi, ne voglio indicare almeno due: la crescente automazione dei processi produttivi, che ha diminuito il valore del lavoro dipendente e ha dato vita alla miriade della precarizzazione, ed il fenomeno inarrestabile della globalizzazione (che non poteva certo essere fermato dalle folcloristiche manifestazioni giovanili) e che ha modificato radicalmente il terreno di competizione della produzione industriale, agricola e commerciale, imponendo modalità sconosciute al conflitto di classe e tra gli stati. Le forze intellettuali e politiche della sinistra non hanno colto nella loro ampiezza questi fenomeni, che rovesciavano radicalmente i terreni del gioco, ed hanno continuato a muoversi lungo i precedenti percorsi rivendicativi, riducendosi spesso a difendere soprattutto l’esistente. Non sono riuscite cioè a configurare (questo è il mio parere) obbiettivi innovativi adeguati alle nuove realtà, accettandone i cambiamenti, e disinnescandone, nel limite del possibile, le perversioni, combattendo per far fronte alle esigenze delle nuove generazioni, che si trovano di fronte realtà molto diverse da quelle dei loro genitori. Le organizzazioni sindacali e politiche, che nel secolo precedente avevano tenuta alta la bandiera del progresso, sono rimaste impaniate in posizioni difensive, ed a volte appaiono conservatrici. 

Di qui la perdita di fiducia dei lavoratori, il generale decadimento della tensione politica, ed anche il progressivo inquinamento morale. Mentre il fallimento dei paesi socialisti ha dato un colpo mortale agli ideali di secoli, azzerando l’orizzonte luminoso per il quale si sono mobilitate in tutto il mondo milioni di coscienze. Quanto diversa la situazione da quella del dopoguerra, quando Tindaro aveva iniziato la sua coraggiosa e limpida vita politica e personale! Dalle carte che egli ha lasciato – e dalle testimonianze familiari – è certo che egli volesse scrivere un libro sulle sue esperienze, e che intendesse intitolarlo “Racconti di un comunista di periferia”. Ma proprio i “comunisti di periferia” sono stati la forza dell’antico partito comunista. Se non ci fossero stati i “comunisti di periferia”, non ci sarebbe stato il partito, e i tanti progressi economici e civili della popolazione italiana non sarebbero stati raggiunti. Il loro ricordo non può però limitarsi al rimpianto; ci auguriamo che esso solleciti una rinascita democratica. Che dovrebbe avvenire in forme adeguate ai nostri tempi. Si può fare tesoro dell’esperienza passata, ma non proporsi di copiarla, perché irripetibile: nuove domande esigono nuove risposte.

Esprimo la speranza che i lavoratori e gli onesti (che sono la maggioranza del paese!), le donne, i giovani, ricomincino ad impegnarsi per migliorare la società in cui viviamo, operando all’interno delle formazioni politiche, strappandole ad arrivisti ed avventurieri, facendole diventare canale autentico ed efficiente delle preoccupazioni e delle aspirazioni delle persone, in una dinamica anche conflittuale, indispensabile ad una vita democratica corretta. Sono certa che alcune caratteristiche fondamentali del loro lavoro resteranno come esempio valido per ogni tempo: capacità di analizzare la realtà, con attenzione e serietà, senza illusioni ed autoinganni; analisi delle contraddizioni interne alla realtà ed individuazione delle forze progressiste in essa, su cui far leva per un cambiamento positivo possibile; elaborazione di rivendicazioni concrete e realizzabili, su cui raccogliere un largo consenso (mai per piccole sette). E soprattutto la regola numero uno: impegnarsi in prima persona, con spirito di amore e di solidarietà.

Intelligenza, coraggio, onestà. Ecco l’eredità politica ed umana che hanno lasciato Tindaro e i suoi compagni".


Come abbiamo letto nella prefazione al libro “Racconti di un comunista di periferia”, Tindaro La Rosa viene anche ricordato per le sue lotte operaie, condotte insieme alla moglie Eliana Giorli, a favore delle Gelsominaie. A tal proposito riportiamo uno scritto della Senatrice Simona Mafai su queste lavoratrici titolato "La Poesia e la Fatica"
E’ strano come possano convivere poesia e fatica!
Cosa c’è di più poetico di un gruppo di giovani donne che scendono all’alba, a piedi nudi, in mezzo ai gelsomini, e che - quasi stordite dal profumo intenso ancora notturno dei fiori - li staccano delicatamente uno ad uno per riempirne cestini, tenuti alti dalle braccia dei figli bambini?
Manca solo un pittore impressionista che le ritragga dipingendole su un’ampia tela!
O un regista che, con una cinepresa, tramuti quella realtà in una successione indimenticabile di sequenze in bianco e nero…
Poesia e bellezza forse, ma anche tanta fatica e mal ripagata: 25 lire per un Kg di fiori raccolti, e sulla precisione delle bilance nessuno potrebbe giurare!
Siamo nel 1945, a Milazzo, in provincia di Messina; la guerra è finita da poco. I fiori raccolti vengono portati nei magazzini, qui sono pressati, e se ne ricavano le “essenze”, che successivamente raffreddate diventano “concreta” (una sorta di pasta giallognola) che viene poi mandata in Francia e costituisce la base di produzione naturale per i profumi delle grandi marche parigine.
Anche in Calabria si segue lo stesso procedimento con i fiori di bergamotto.
Da quanto sudore nascono i profumi!
Viene in mente la vecchia canzone dei primi del secolo scorso “Profumi e balocchi”.
Ma qui il contrasto non è tra balocchi e profumi, ma tra profumi da una parte e pane e cipolle per le raccoglitrici dall'altra.
Si aggiunga che operando con i piedi nell'acqua, le raccoglitrici di gelsomino vengono molto spesso infettate dalla leishmaniosi, una malattia portata da un insetto che punge la pelle dei piedi nudi, determinando tumefazioni articolari, dermatiti, andature zoppicanti.
Levatacce notturne, ore ed ore con la schiena piegata, malattie, un pugno di lire: questo il rovescio della medaglia della poesia dei gelsomini!
No, non ci sono stati pittori né registi neorealisti. Di bianco e nero c’è stata solo la verità. Le donne scalze e coi bambini alle ginocchia, hanno incrociato l’organizzazione sindacale. Anche tra loro sono cominciate a circolare le magiche parole del dopoguerra che hanno fatto alzare la schiena ai lavoratori: unità operaia, rivendicazioni salariali, diritti.




Antonella Di Pietro




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