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IL PRIMO FEBBRAIO 1945 LE DONNE HANNO DIRITTO DI VOTO E DAL 10 MARZO 1946 POSSONO ESSERE ELETTE

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La battaglia delle donne per l'ottenimento del voto politico fu molto più lunga di quella che riguarda l'elettorato amministrativo ed ebbe inizio nell'Ottocento quando l'ideologia sansimonista divulgava le sue idee sull'emancipazione femminile. 


Il sansimonismo è stato un movimento socialista francese della prima metà del XIX secolo e prende il nome dal suo ideatore il conte Henri de Saint-Simon, il centro di questo movimento fu l'École polytechnique. Giuseppe Mazzini conosceva l'ideologia sansimonista e riteneva la donna “l'Angelo della famiglia. Madre, sposa, sorella la donna è la carezza della vita, la soavità dell'affetto diffuso sulle sue fatiche, un riflesso sull'individuo della provvidenza amorevole che veglia sull'Umanità”. Da questo può sembrare che Mazzini esaltasse più la figura della “madre educatrice” ma d'altra parte egli era convinto che gli uomini non avessero nessuna superiorità. Insieme a Mazzini, un'altra figura di rilievo a favore dell'emancipazionismo fu Salvatore Morelli (soprannominato “il deputato delle donne”). Nel 1867 Morelli presentò il primo disegno di legge che prevedeva la concessione del voto politico alle donne. Egli proponeva la parificazione a livello giuridico tra maschi e femmine: fu per questa ragione che tale progetto e anche un successivo del 1875 non furono presi in considerazione. Nel 1867 Mazzini in una lettera alla sua amica e suffragista inglese Clementia Taylor scriveva che “nulla si conquista, se non è meritato” e nello stesso anno in una lettera a Morelli affermava che i tempi non erano maturi. Non gli si poteva dar torto perché in Italia il movimento degli emancipazionisti era tutt'altro che coeso e donne che ne facevano parte non erano favorevoli a ottenere diritti politici.


Nel 1877 dopo il secondo fallimento di Morelli, Anna Maria Mozzoni, considerata la più coerente sostenitrice del suffragio nell'Italia dell'Ottocento, intervenne nel dibattito con una petizione (la prima nel suo genere) per il voto politico alle donne nella quale affermava: “Ora questa massa di cittadini che ha diritti e doveri, bisogni ed interessi, censo e capacità, non ha presso il corpo legislativo nessuna legale rappresentanza, sicché l'eco della sua vita non vi penetra che di straforo e vi è ascoltata a malapena.[...] trovandoci noi [donne], perciò, al giorno d'oggi, alla eguale portata intellettuale di una quantità di elettori [uomini] che il legislatore dichiara capaci, stimiamo che nulla costi acché venga a noi pure accordato il voto politico, senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti.”. La petizione della Mozzoni aprì nel 1877 un dibattito alla Camera che venne ripreso nel 1883 e si concluse in un nulla di fatto.


Nel 1903 un nuovo disegno di legge che prevedeva l'estensione del diritto di voto anche alle donne fu firmato dal repubblicano Roberto Mirabelli e discusso nel giugno 1904 e nel dicembre 1905. Nel 1906 viene proposta dal Comitato Nazionale pro-suffragio Femminile una nuova petizione scritta da Anna Maria Mozzoni e firmata da diverse celebri italiane , tra le quali Maria Montessori. Le donne sempre più consapevoli che non poter votare equivaleva a non esistere approfittarono del silenzio legislativo per chiedere l'iscrizione alle liste elettorali e alcune domande vennero accolte suscitando critiche. Il silenzio legislativo era apparentemente dovuto a una svista del legislatore, ma nessuna coscienza pubblica avrebbe consentito alle donne di votare.


Nel 1908 la socialista Anna Kuliscioff si schierò a favore dell'estensione del suffragio ed il marito, Filippo Turati nel 1912 annunciò che auspicava una legge elettorale nella quale fossero inclusi “tutti gli italiani, indipendentemente da differenze di carattere esclusivamente anatomico e fisiologico”. Da questo dibattito sulla riforma elettorale si ottenne il suffragio universale maschile dei cittadini maggiorenni, che fossero in grado di leggere e scrivere o che avessero preso parte al servizio militare; inoltre, a partire dal trentesimo compleanno, il voto veniva esteso anche agli analfabeti. Delle donne non si faceva neanche menzione  e questo decretò a partire dal 1913 un incremento dei Comitati pro-voto e delle manifestazioni. Nel 1919 Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, inseriva nel programma l'estensione del diritto di voto alle donne, tracciando un confine netto con la tradizione clericale e schierandosi quindi anche contro Papa Pio X che già nel 1905 affermava: “Dio ci guardi dal femminismo politico.”


Lo scoppio della prima guerra mondiale mise nuovamente a tacere i movimenti a favore del suffragio ma, con l'avvento della Grande Guerra, l'assetto sociale cambiò poichè le donne dovettero sostituire gli uomini che erano partiti per il fronte e così facendo presero parte a lavori che la tradizione aveva sempre riservato al genere maschile. Le donne, durante la guerra, avevano dato prova di riuscire a sostituire bene gli uomini e il Governo, sentendosi obbligato a dimostrare loro un po' di gratitudine, il 9 marzo 1919 promulgò la legge Sacchi con la quale si eliminava la predominanza dell'uomo nella famiglia e fu approvato l'ordine del giorno Sichel che prevedeva l'ammissione delle donne al voto sia amministrativo sia politico su presentazione di un disegno di legge. Il disegno di legge in questione venne letto in aula nell'estate del 1919, fu approvato e divenne legge nel settembre dello stesso anno. Sembrava che le donne avessero vinto la loro battaglia ma non fu così perché questa legge non arrivò mai in Senato a causa della chiusura anticipata della legislatura dovuta alla questione fiumana: il che significava che tutte le leggi “in attesa di approvazione” decadevano.

Anni dopo l'Italia prese parte alla seconda guerra mondiale e, com'era già successo durante la Grande Guerra, le donne dovettero rimpiazzare gli uomini. Questa volta però i convulsi avvenimenti degli ultimi due anni di guerra implicarono il loro coinvolgimento nella Resistenza. Su iniziativa del Partito comunista, nel novembre 1943 vennero fondati a Milano i Gruppi di Difesa della Donna e per l'Assistenza ai Volontari della Libertà, un'organizzazione costituita da donne che si univano per manifestare contro la guerra, assistere famiglie in difficoltà, supportare i partigiani. Nel luglio 1944 i Gruppi di Difesa furono riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia e nello stesso anno il giornale Noi Donne dava voce alle pubblicazioni ufficiali. Nel settembre 1944, sempre per iniziativa del Partito comunista, a Roma venne fondata l'Unione Donne Italiane, nella quale vennero inseriti i Gruppi di Difesa della Donna. Questa macro-organizzazione avrebbe dovuto rendere unitaria la campagna per il raggiungimento dei diritti politici. L'UDI era però di ideali più tendenti verso sinistra, fu per questa ragione che Maria Rimoldi, presidentessa delle donne cattoliche, propose di staccarvisi e dar vita a una nuova organizzazione di ispirazione cristiana: nasceva il Centro Italiano Femminile.


Nell'ottobre 1944 la Commissione per il voto alle donne dell'UDI e altre associazioni presentarono al governo Bonomi un documento nel quale parlavano dell'inevitabilità di concedere il suffragio universale e verso la fine del mese sorse il Comitato Pro Voto, volto a far conquistare il diritto di voto alle donne e fare in modo che esse potessero ottenere cariche importanti nelle amministrazioni pubbliche e negli enti morali. Nel novembre del 1944 UDI, CIF e altre organizzazioni commissionarono a Laura Lombardo Radice, un'insegnante, partigiana, politica, pacifista italiana e moglie di Pietro Ingrao, la scrittura di un opuscolo intitolato “Le donne italiane hanno diritto al voto”. Successivamente le rappresentanti del Comitato Pro Voto consegnarono una petizione al Governo di Liberazione Nazionale nella quale chiedevano che il diritto di votare e di essere elette venisse esteso alle donne per le successive elezioni amministrative.


Il 30 gennaio 1945 nella riunione del consiglio dei ministri, come ultimo argomento, si discuteva del voto alle donne. La questione fu esaminata con poca attenzione ma la maggioranza dei partiti (a esclusione di liberali, azionisti e repubblicani) si dimostrò favorevole all'estensione. Il 1 febbraio 1945 venne emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane che avessero almeno 21 anni.  L'11 febbraio 1945 l'UDI compose un telegramma per Bonomi nel quale si richiedeva di sancire anche l'eleggibilità delle donne. Dovette trascorrere poco più di un anno prima che esse venissero accontentate e potessero godere dell'eleggibilità che veniva conferita alle italiane di almeno 25 anni dal decreto n. 74 datato 10 marzo 1946: da questa data in poi le donne potevano considerarsi cittadine con pieni diritti.


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