Certi film mentre li vedi già sai che non sarà facile dimenticarli. "La vita di Adele" (La Vie d'Adèle), Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013, è uno di quelli. Chissà se davvero ogni nostro incontro è predestinato, l'incontro con un libro, con una persona, con un film: è la prima riflessione uscendo dal cinema dopo aver assistito al dirompente colpo di fulmine tra Adele (Adèle Exarchopoulos) e Emma (Léa Seydoux) e all'inaridirsi poi del loro legame. Un incontro in cui il caso ha il sapore di un disegno, di una trama creata dalla vita affinché la vita stessa possa evolversi, accrescersi, attraverso l'ineluttabile sofferenza a cui un abbandono conduce.
Qui l’amore ha i capelli e gli occhi blu di Emma, un'eccentrica studentessa di Belle Arti che, col suo charme da creatura smaliziata, ammalia l'adolescente e inquieta Adele ancora alla ricerca di un'identità sessuale. Ma è irrilevante il fatto che le protagoniste siano due donne: il regista franco-tunisino Abdel Kechiche ci racconta una storia universale. Una storia sulla solitudine che l'incomprensione sempre genera? O una storia di incomprensione generata dall'irrimediabile solitudine che tutti ci governa?
Eppure, durante le lunghe e impetuose scene di sesso, girate magistralmente senza filtri e senza castigati sottintesi, le figure delle protagoniste sembrano liquefarsi in un unico corpo. E tutto appare possibile, inesauribile, niente e nessuno sembra poter scalfire quell'incanto, quell'appagamento. Ma leggere l'altro con gli occhi della passione è come sognare. E una relazione basata più sulla carnalità che su altre affinità presto o tardi è destinata a svigorirsi.
Adele è una ragazza semplice, di famiglia modesta, vuole fare la maestra elementare, ama gli spaghetti alla bolognese e il kebab e non sa quasi niente di Jean-Paul Sartre, di Egon Schiele, non sa disquisire su Gustav Klimt. Emma al contrario li conosce bene, è colta, facoltosa, ambiziosa, sa tutto sulle ostriche e sui migliori vini bianchi: due vite dissimili e lontane destinate fatalmente a restare tali.
Ispirato al romanzo grafico "Il blu è un colore caldo" di Julie Maroh, "La vita di Adele" è un film memorabile anche per merito delle due magnifiche attrici la cui disinibizione del corpo e dei sentimenti raggiunge vette difficilmente riscontrabili nell'ovvietà e nel dormiveglia di tanto cinema contemporaneo.
Kechiche, quasi sadicamente, entra dentro la loro visceralità interpretativa attraverso costanti primi piani usando perlopiù una cinepresa a spalla. Indimenticabili le loro lacrime mai stucchevoli, il loro sudore, lo sguardo sconfitto di Adèle Exarchopoulos, che fortuitamente si chiama come il suo personaggio. Indimenticabili i suoi rapidi sorrisi che spegnendosi subito fanno ripiombare il suo viso da bambina in una tristezza che conosce bene solo chi è consapevole del proprio ineluttabile fallimento. Forse necessario e formativo per iniziare con più consapevolezza a reinventarsi la vita.
un film da vedere quindi...
RispondiElimina