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I RACCONTI DI NONNO ROS: LA CONTENTEZZA SI TROVA NELLE PICCOLE COSE

Nota critica di Ornella Fanzone, editor e counselor, curatrice del volume "I Racconti di Nonno Ros - Elogio della fantasia" (Armenio Editore) di Mimmo Mòllica, vincitore del Premio Nazionale Letterario La Capannina 2014.

Ornella Fanzone e Mimmo Mòllica
A lungo anticamente le fiabe non hanno rappresentato un genere rivolto all’infanzia ma a tutti: una forma di narrazione antichissima e popolare, così da non potersi considerare letteratura per l’infanzia ma per tutti, grandi e piccoli. Hans Christian Andersen all’inizio della sua attività scrisse per gli adulti, senza mai raggiungere il successo. Poi la sua memoria di bambino divenne novella, quindi delle sue esperienze acquisite durante i viaggi, Andersen  fece fiabe da rivolgere ai bambini.

Italo Calvino, che qui cito perché saranno evidenti al lettore che lo conosce i riferimenti che riecheggiano tra le pagine del libro di Mimmo Mòllica, diede all’inizio, alle sue opere giovanili, l'impronta neorealistica e invece poi, alla produzione più matura quella allegorico-fiabesca, sperimentando linguaggi e generi, con la lucidità descrittiva originale alla quale fa da contrappunto il lirismo e l'ironia, sostanziati da una riflessione profonda, sincera e disincantata sul senso ultimo dell'esistenza umana.

Gianni Rodari sostenne con moltissima convinzione, una grammatica della fantasia, immettendo nelle sue opere l’oramai noto umorismo “pedagogico”, asserendone  la conclamata valenza educativa e ludica, in ogni fase dell’apprendimento e della conoscenza, trasversalmente al mondo degli adulti e dei bambini, innovando mediante l’uso di stravaganti termini, molti del tutto inventati, col gusto dell’irriverenza linguistica, in anni in cui ciò diede luogo ad una rottura di schemi e ad una vera e propria trasgressione letteraria. L’umorismo consente, secondo Rodari, di trattenere l’oro, mentre certa “correttezza” di cui sono pieni i programmi scolastici, le metodologie d’insegnamento tradizionali, trattiene i ciottoli e lascia scorrere via l’oro. L’oro contenuto nelle cose piccole e semplici. E Nonno Ros quest’oro lo trattiene tutto.

Di sovente, la parola favola si accosta riduttivamente soltanto ai concetti di magia, mistero e incanto, e invece , come accade ne I racconti di nonno Ros, può altresì condurre festosamente i lettori e l’autore medesimo, in un territorio nel quale l’assurdo, il nonsense, il grottesco, permettono di attuare una nuova visione dell’uomo, mediante quella sagacia e quello stupore che provengono tanto dalla sfera dell’inconscio quanto dalla spontaneità presente nel bambino. 

Nel volume di Mimmo Mòllica, si naturalizzano immaginifiche storie intrise di motti lievi e acuti, impregnati di umorismo, basati sui giochi di parole, lessicalmente raffinate - dove la parola si ammanta del suo più alto portato linguistico e lessicale - che descrivono situazioni fantastiche il cui paradosso coniuga sapientemente l’assurdo alla realtà  scientifica, una narrativa che si avvale del “depeysement”, lo spaesamento, esce cioè dall’ordinario, ma che oltre a essere avventurosa e onirica è al contempo illuministica e didattica. 

Attraverso un’abile percezione umoristica del mondo e dell’umano esistere, osservato con gli occhi bonari e con la compassione, nella sua piena accezione etimologica di “con- patire”, patire con. L’indeterminatezza, lo scherzoso recupero dell’equivoco linguistico, del rovesciare i contenuti parossisticamente, enfatizzando situazioni e fatti, in una fantasmagoria di accadimenti, collegati dal filo conduttore dell’incanto, generano un mondo ricco, fino all’inversosimile, di un campionario umano le cui caratteristiche si pongono a metà strada  tra l’immaginario e il reale, tra il mitico e il volutamente elementare. 

Personaggi nei quali ciascuno di noi riesce a trovare tratti di persone racchiuse tra i ricordi della propria infanzia, dei luoghi dove ha vissuto e talvolta perfino proprie caratteristiche e atteggiamenti. La fantasia, non come evasione dalla realtà, bensì dilatazione dello spazio intellettivo-interpretativo dell’umano esistere. Totale è la rottura degli schemi spazio-tempo, mediante una narrazione ludica e liberatoria, col capovolgimento scherzoso delle convenzioni e delle convinzioni; una feritoia luminosa di suggestioni nel quotidiano della normalità, con un accostamento  rapido e un’alternanza felice di situazioni opposte: tragiche e comiche, ironiche, e sentimentali. Sublimi. 

Il “grottesco” nella sua forma più riuscita, poiché il lettore viene sottratto alle sue convinzioni e condotto attraverso percorsi entusiasmanti e avventurosi. Un’euforia creativa, libera e disinibita, e uno spirito razionale e attento al contempo, poiché al fondo di ogni storia si scorge comunque un’interpretazione finemente umana, eufemisticamente definibile “morale”. 

Mimmo Mòllica si diverte a dare voce a tutto quell’immaginario terso e primigenio, quasi selvatico, che, pur non essendo estraneo neanche al genere del racconto e del romanzo realistico, pur tuttavia è da questi sottoposto a un lavoro di sublimazione e in un certo qual modo, di nascondimento.  Mòllica compie il disvelamento di un mondo intriso di incongruenze, tra vivente e meccanico, tra morale e pulsione, amore e disamore, gentilezza di modi e trivialità, straripante di immaginazione fantasiosa e al contempo reale poiché l’incongruo, come afferma Helmuth Plessner, è già insito nell’uomo stesso. Non a caso cito questo antropologo studioso che ha approfondito la materia del ridere e del piangere asserendone l’uguale importanza e dignità, e normale compresenza nell’espressività umana. 

A riguardo, e in particolare della vis comica come elevata componente del mondo emotivo ed espressivo dell’uomo, si occuparono già Platone, Aristotele, Kieerkegaard, Shopenhauer, Dreud, Baudelaire, Pirandello. E la fantasia, non come evasione dalla realtà o fuga, bensì dilatazione dello spazio intellettivo-interpretativo dell’umano esistere. Un narrare affidato alla bellezza delle parole, con le quali l’Autore si diverte, giocandoci e gustandone la phonè. 

Ne "I racconti di Nonno Ros", la “cosizzazione” e l’antropomorfismo di rodariana memoria “Come un essere umano la molitrice ha bisogno di riposo e rispetto…” si esplicitano in parole che grondano sentimento, di umana compassione e verità, dalle quali sprigiona una comicità complessa, romantica, che suscita un riso “filosofico”, dove si mescola allegria e dolore, e il paradosso serve a valorizzare l’apparentemente insignificante, a conferire alle cose semplici della vita,  perfino agli oggetti, agli animali, alle piante, una legittima dignità: “Dalle mollette prospicienti il giardino, penzolava come un gattone accucciato il pigiama grigio…”. 

Segno d’intelligente distacco da un miope antropocentrismo, e tangibile di riconoscenza al loro silenzioso esistere. “Il dio delle piccole cose” per chiosare il titolo del bellissimo romanzo della scrittrice indiana Arundhaty Roy. “Il bastarmi del poco e niente che serve”, per citare un verso tratto da una bellissima poesia di Mariangela Gualtieri, poetessa che apprezzo molto…

Tra le pagine di questo libro, che giudico quasi un compendio di filosofia, c’è dunque tanta politica sociologica e psicologica, filosofia veritiera e praticabile, come praticabili certi valori, ad esempio quello della contentezza, valore tanto trascurato quanto invece alla portata di tutti, più di una beffarda, ingannevole e chimericamente irraggiungibile felicità. Contentezza che invade l’anima di chi la sa scovare proprio attraverso il culto delle piccole cose, come accade al personaggio Zirigus… 

Che si svela alle persone che sanno meravigliarsi e stupirsi, come fanno i bambini, per i quali ogni cosa ha significati diversi secondo il momento e lo sguardo che vi si posa. Ogni cosa è incanto ed ebbrezza, ed è capace di rendere luminoso e intenso ogni attimo del vivere quotidiano.  

Lo scardinamento netto e convinto dell’antropocentrismo a favore di una orientata e sapiente visione dell’abbraccio umile verso il Cosmo, dentro cui la nostra contentezza è realizzata attraverso la consapevolezza che siamo elementi importanti – ma non necessariamente più di altri – di un Tutto armonico. 

Attraverso un atteggiamento di gratitudine e di amore verso il Creato, in tutte le sue espressioni. Una vera pratica di sfrondamento del superfluo, dell’inautentico, a favore di un costante recupero dell’Essenziale e del senso profondo dell’Esistere.



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