Marco Damilano, con Sciascia, racconta Moro
Nella vicenda Moro è come se cominciassimo a
muoverci entro un orizzonte di realtà, anche se non ancora di verità. “C’è un punto, da qualche parte, in cui tutto
finalmente si incontra […] e diventa possibile conoscere le cose nel loro
insieme”: questo l’incipit di Marco Damilano nel suo "Un atomo di verità,
Aldo Moro e la fine della politica in Italia". Un libro, per Feltrinelli, che
esce in questi giorni quasi a volerci ricordare i 40 anni dalla tragedia iniziata
il 16 marzo del ‘78 in via Fani.
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Mesi fa
la relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla
morte di Aldo Moro era stata approvata all’unanimità, con una sola astensione.
Alla luce delle indagini compiute su rapimento e omicidio, il tutto non appare
affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma
acquista “una rilevante dimensione internazionale. Emerge infatti un più vasto
tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice
o tragica del sequestro.
Certo al di là dell’azione di fuoco di via Fani.
Certo con tutto il cinico carico di “verità dicibili” e con il diabolico
cinismo della “destabilizzazione per stabilizzare” all’interno della “rilevante
dimensione
internazionale” che finirà con l’esigere, anche qui cinicamente, il necessario
assassinio di Moro. E allora ancora
riinvii, perché il lavoro non era “esaustivo”, anche se “rende molto più chiaro
uno degli eventi più drammatici della Storia della Repubblica”. Comunque le attività
condotte “restituiscono…a Moro un grande spessore politico e intellettuale sue
qualità di statista e di cristiano”.
Damilano ricorda un passaggio di quella mattina del 16 marzo. Quella mattina Moro,
a parte le tesi di laurea all’università, doveva lavorare alla stesura finale di
un articolo per il Giorno, nel quale riprendeva una non convergenza, sull’Unità,
sul significato del 68 tra Amendola e Petruccioli. E’ significativo che Moro si
dissociasse dalla eccessiva prudenza di Amendola. In quella sua contestazione sulla
fine anni degli anni 60 Moro avvertiva l’eco “ di una cultura che sospettava di
quello che si muoveva nella società”. La politica invece per Moro era
esattamente il contrario, “aderenza alla realtà e dominare con intelligenza gli
avvenimenti”.
E come avrebbe poi detto Sciascia sarà questa la sua condotta
anche da prigionero. E a Racalmuto Damilano rincontrerà “Moro, Pasolini e
Sciascia, il cattolico democristiano, il comunista eretico, il laico
illuminista e volterriano”…e le loro enigmatiche
e tragiche correlazioni, come le chiamava Sciascia. Lì, sfogliando alla
Fondazione le pagine dell’affaire Moro,
Damilano rivide parole di Sciascia: “Ma questo Moro mi ha dato una inquietudine
che sconfinava nell’ossessione…Se 10 anni prima mi avessero detto che Moro
avrebbe cambiato la mia vita avrei riso e invece è così”.
Quattro anni prima,
nel ’74 , quando aveva pubblicato il noir politico Todo modo, “ affresco barocco, ritratto deforme, romanzo sulla
crisi della dc, nell’anno in cui il potere del partito Stato aveva cominciato a
tremare, dopo la sconfitta sul referendum e Moro era tornato a Palazzo Chigi”
ma tutto si era appesantito. E il film di Petri diventerà ancora più
angosciante. Era come il processo che Pasolini voleva intentare a tutta una
classe dirigente. Poi Pasolini non ci sarà più. “Era il giudice Sciascia che era
tentato dal fare giustizia… contro i colpevoli
della mutazione antropologica? Già: erano scomparse le lucciole. Ma “l’intuizione
di Pasolini, più poetica che politica, era il vuoto”, scrive Damilano. E “i
democristiani, scriveva Pasolini, coprono con la loro manovra…il vuoto”
“Persino Aldo Moro [???]: cioè per una enigmatica correlazione, colui che
appare il meno implicato di tutti…” Ma [inece] Moro aveva riconosciuto che la
dc era stata logorata da tanti anni di governo senza ricambi. Aveva avvertito: “l’avvenire
non è in parte più nelle nostre mani.” E aveva pensato a incontri sulle cose
che avrebbero potuto unire, a patto, dirà infine, di cambiare anche noi.
Aggiungerà Damilano: “dal momento del rapimento era
avvenuta una trasformazione” una sorta di cambiamento interiore, e questo anche
per Sciascia: “un’altra verità” “un’esigenza
di risarcimento”, un restituire a Moro quell’umanità che i brigatisti gli
avevano tolto, anche e soprattutto per logiche internazionali, come dalla
commissione Fioroni.
In realtà dice Corrado Guerzoni, più volte citato da
Damilano (era stato vicinissimo a Moro, come portavoce, per due decenni), lo
Stato decise di non salvarlo: Aldo Moro fu considerato morto fin dal primo
giorno. E per questo Cossiga, che aveva consentito alla demolizione personale
di Moro sarebbe diventato Presidente della Repubblica, su proposta dc, con
l’assenso di quei comunisti che un anno prima volevano fosse giudicato per alto
tradimento.
“E nelle
picconate di Cossiga, sferrate dal Quirinale e non da una prigione
insonorizzata, c’erano le premesse del crollo del sistema politico “. E anche con
Andreotti.
Articolo di Giuseppe Campione pubblicato su Repubblica Palermo il 16 marzo 2018.
Articolo di Giuseppe Campione pubblicato su Repubblica Palermo il 16 marzo 2018.