Il volume, opera di Luigi Tripepi, uno studioso reggino, presenta una scrupolosa disamina dei culti e dei miti legati all’area dello Stretto di Messina.
Partendo dai Ciclopi e dai Giganti, l’autore presenta nel suo libro "Culti e Miti dello Stretto di Messina" (Kaleidon Editrice) tutte le storie legate alla vasta area culturale dello Stretto che, fin dalla più remota antichità, ha costituito un unicum culturale ancora oggi ben distinguibile. Ecco allora i miti sull’origine dello Stretto, delle fondazioni mitiche delle città, i culti delle divinità maggiori come Apollo, Afrodite, Dioniso, Demetra e Kore; sono descritti anche i culti delle divinità locali, come Peloro, Scilla e le Sirene; non mancano poi le divinità “importate”, come la Magna Mater, Iside e Serapide. Il tutto con una ricca e completa documentazione storica ed archeologica che, lungi dall’appesantire la narrazione, le dà lo giusto inquadramento culturale, ben distante da quello che potrebbe essere lo studio di un semplice appassionato. È difficile reperire un volume che abbia la stessa completezza ed esaustività. Il lavoro di Luigi Tripepi, pur distante negli anni, si presenta come attuale e con i pregi della serietà degli studi che oggi non si trova facilmente. Un volume di grande valore, che colma una lacuna negli studi meridionalistici.
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“Naufragumque fretum, gemino quod litore pressum/Ausoniae Siculaeque tenet confinia terrae”. (Ovid., Met. XIV, 6-7)
Queste pagine vennero scritte da un giovane studioso reggino nel tragico periodo storico compreso fra l’occupazione alleata e la liberazione dal nazifascismo, momento della vita italiana segnato dalla catastrofe nazionale e mondiale a cui avevano condotto i regimi totalitari. E, proprio nel momento in cui la cultura classica cercava di affrancarsi dalle incrostazioni nefaste della retorica di regime, lo studio del nostro passato più proprio, delle origini storiche e culturali dell’area dello Stretto, dei suoi miti costitutivi e della sua epopea di fondazione, divenivano tema vivo e pieno di fascino per una nuova generazione di studiosi, di storici e di filologi, per i quali la ricerca scientifica s’intesseva con la fiducia ritrovata nella dimensione costruttiva del sapere umanistico, nel dialogo pluralistico, nel carattere necessariamente contemporaneo di ogni tematica storiografica.
Studiare e ricercare non era però facile allora, i collegamenti e i legami da una sponda all’altra dello Stretto erano garantiti dai mezzi navali della Royal Navy britannica e lo specchio d’acqua dove Odisseo aveva ricercato un altro dei suoi innumerevoli passi (poroi) per il compimento del ritorno (nostos), veniva percorso quotidianamente dalle “zattere” inglesi cariche di studenti e docenti diretti agli Atenei di Messina e di Catania. È questo il contesto storico che può aiutare la comprensione della genesi di questo studio, la sua intenzione filologica, la sua passione storiografica e anche la sua impetuosa “fretta” giovanile nel riannodare i fili e la rete delle fonti, delle ricerche compiute, soprattutto fra il XIX e l’inizio del XX secolo in ambito locale, nazionale ed europeo. Le pagine seguenti, redatte ben prima che la cultura italiana si riaprisse alla libera discussione metodologica relativa alle scienze umane e alla storia, avevano indubbiamente assorbito la lezione vichiana e quella crociana nell’approccio alla dinamica degli eventi e alla stessa problematica relazione fra mito e storia, fra sapere mitico e sapere storico.
Miti e culti dello Stretto di Messina nell’età classica si proponeva, pertanto, di “tentare di fornire una visione d’insieme ed una linea interpretativa coerente” della storia, della geografia e della cultura del lembo più estremo della Magna Grecia e dello Stretto di Messina. La base documentaria primaria di tale tentativo ermeneutico erano ovviamente le fonti greco-romane, gli storici e i geografi, i poeti e i naturalisti, oltre che i commentatori epigoni degli autori classici. L’analisi dei miti di fondazione e la narrazione degli accadimenti storici relativi alle vicende più antiche dello stretto e delle poleis di Messana e di Rhegion costituiscono il nucleo centrale del testo, da cui si sviluppa l’analisi dell’esperienza del sacro e delle tradizioni cultuali nell’area dello stretto con l’ausilio delle ricerca archeologica e filologica sviluppatasi fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Ventesimo secolo. È da riconoscere il debito del giovane filologo nei confronti del suo maestro Nicola Putortì, figura cardine nella storia della ricerca archeologica reggina, nello studio dei reperti e del loro provvisorio ordinamento nell’allora Museo Civico della città. Di ausilio fondamentale sono anche, evidentemente, i lavori del Pais, del Ciaceri e dell’Orsi, nonché degli studiosi locali calabresi e siciliani.
“La via verso nord è esiziale ai naviganti, stretta, storta ed impraticabile; quivi il mare assorbito rumoreggia contro gli alti scogli, tagliato dall’Aonio tridente”. (Dionysion, Oikoumenes Periegesis, v. 473, Milano, 1937, p. 267)
L’origine e la formazione dello Stretto sono il tema iniziale del primo capitolo di Miti e Culti, l’autore esamina accuratamente il patrimonio della tradizione latina che, sul presupposto dei mythoi interni alla tradizione omerica ed esiodea, diffonde ed articola, sia nella trattazione storica che nella poesia, l’interpretazione degli antichi sulle origini dello stretto. Ed è inevitabile che il discorso naturalistico e quello storico si intreccino (Omero ed Esiodo) e s’oppongano (Tucidide, Eratostene, Strabone) a quello mitopoietico, ai riferimenti ai miti di fondazione, soprattutto quello di Poseidon-Nettuno e quello di Orione. Il piano esplicitamente fisico-naturalistico è ben documentato nella letteratura classica dalla chiarezza nell’elenco delle cause (aitiai), ma a queste si sovrappone la spiegazione mitopoietica nella determinazione di un evento che diviene simbolico dell’agire divino e della costituzione di un nuovo ordine sul piano della storia e della cultura: il colpo del tridente aonio di Poseidon riunisce e rende coerenti i due livelli della comprensione intorno all’origine.
Diodoro e Strabone concordano nel ritenere che il nome di Rhegion denominasse all’inizio lo Stretto in quanto tale, ben prima che venisse associato alla polis greca sorta sulla costa orientale, e che questo venisse designato come Porthmos di Sicilia o, semplicemente, Porthmos. Un frammento di Eforo citato da Strabone [VI, 2, 2], considerato fondamentale sin dalle ricerche del Pais, e poi continuamente posto al centro dell’attenzione della ricerca storiografica informava come Teocle ecista ateniese “presi con sé numerosi Calcidesi dell’Eubea ed alcuni ioni ed anche Dori, di cui la maggior parte erano Megaresi” fondò Naxos da una parte e Hybla dall’altra. Ed è Tucidide che afferma come il culto di Apollo archegétes venne importato proprio a Naxos, dove venne edificata un’ara, dove i “theoroi, quando muovono dalla Sicilia, offrono i primi sacrifici” [VI, 3, 1]. Ed è da Naxos che il culto delfico di Apollo archegétes si diffonde nell’area dello Stretto, la cui importanza fondamentale è ribadita da Platone nel IV libro della Politeia in quanto dio dei padri e del consiglio intorno alla fondazione di una nuova polis e, come sottolinea il Ducat: “guide suprême des entreprises coloniales, parce que dieu de la dîme et dieu purificateur”.
La “propaganda delfica” dei Naxii introdusse il culto apollineo anche in Tauriomenum, rendendola città completamente greca e erigendovi un’ara esistente ancora in epoca romana, secondo la testimonianza di Appiano. La storia di Rhegion e Messana è lo specchio dei due grandi culti comuni, quello di Artemide Facelite e quello di Apollo Archegete che, dopo una tormentata serie di eventi bellici e storico-politici, conduce le due poleis a vivere “étroitement associées”, secondo le parole del Vallet, nei riti e nella religiosità. Entrambi i culti sono legati al mito di Oreste sulle opposte sponde dello Stretto che aggiunge ad Apollo l’epiteto di Kathársios:
“da lui si voleva fondato il tempio reggino di Apollo ed a lui si attribuiva l’istituzione presso il Peloro del culto di Artemide Facelite, il cui simulacro l’eroe avrebbe portato con sé dalla Tauride”.
La purificazione dell’eroe nel fiume Métauros, secondo l’ipotetica localizzazione più recente e attendibile, avrebbe non solo consentito la sua catarsi, l’edificazione del tempio e la diffusione del culto delfico in una polis che, sotto Dionisio II, verrà chiamata Phoibía, ma avrebbe anche assunto la funzione geopolitica della presa di possesso del territorio entro i suoi confini tirrenici, oltre i quali s’estendeva la minaccia locrese. L’importanza del culto d’Apollo a Rhegion è stata giustamente sottolineata sia dal Costabile che dal Vallet, ben al di là di una natura semplicemente locale fu, invece, “lieu gèometrique de rencontres, je n’ose dire panhelléniques ou panitaliotes, mais qui, en tout cas, depassent largement le cadre de la polis”. La storia del rapporto fra Rhegion e Messana è sicuramente quella di un sinecismo fra poleis che, pur nel mutamento contingente dei rapporti di forza politico-militari, giungono a costituire un’area cultuale comune con una stessa radice nell’identità culturale e religiosa.
La colonizzazione dei coloni dell’Eubea e la fondazione delle due città calcidesi sulla rive dello Stretto determinano non solo l’evoluzione topografica dei luoghi relativi a questo specchio di mare fra il continente e la Sicilia, ma la presa di possesso simbolica, politica e economica, dei luoghi di comunicazione, dei porti e degli attracchi. Il traiectus ad Siciliam è menzionato per la prima volta nell’iscrizione di Polla: “Ad fretum, ad statuam”, come ricorda il Tripepi all’inizio del quarto capitolo del suo testo:
"Strabone, descrivendo le famose Colonne d’Ercole, dice che era antico costume di porre al limite delle città tali colonne, come avevano fatto i reggini”.
Qui inizia l’affascinante mistero archeologico e topografico della sua precisa posizione sul territorio e, insieme a ciò, quella del tempio dedicato a Poseidon, il Poseidonion, di cui scrive appunto il grande geografo. Strabone, il cui brano al riguardo rimane essenziale, pone la Columna Rhegina vicino al Poseidonion, ma tutti i tentativi di localizzazione basati sul calcolo delle distanze fornite da Strabone si sono rivelati parziali ed insufficienti per giungere ad una soluzione topografica definitiva o, comunque, altamente probabile.
Sul piano storico, invece, la presenza di due templi gemelli dedicati a Poseidon, il primo a Capo Peloro, il secondo sul continente, rivela l’importanza fondamentale del mito del dio marino e dei giganti a lui apparentati, Orione e Peloro e la complessa radice euboica della struttura mitopoietica di riferimento nello Stretto. Come nel caso del culto apollineo sulle due sponde, anche la vicenda della Columna Regia e del Poseidonion, rimanda ad una perfetta simmetria fra le due rive dello Stretto: “Chaque rive du détroit, en effet, est en quelque sorte la copie de l’autre, pour certains aspects du paysage, de la toponymie et des cultes”. E, difatti, la colonizzazione proveniente dall’Eubea s’impone con il controllo sul piano politico-militare, ma anche occupando lo spazio fisico dell’area dello Stretto nominandolo per mezzo del linguaggio: “nommer un espace, c’est définir, mais c’est surtout en prendre possession par la parole”.
“Fit monstrum horrendum; bifidae fert pondera caudae, Obscaenique canes confestim ex pectore latrant”. (D. Vitrioli, Thalia, Reggio Calabria, 1930)
L’Odissea consegna all’Occidente l’archetipo delle Sirene e, con esso, la terribile ambiguità della loro parola e della loro natura ibrida:
“… allà te Seirenes ligure thelgousin aoide,/ emenai en leimoni: polùs d’amph’ òsteóphin this/ andrōn puthoménon, perì de rinoì minúthousi”. [“… Ma le Sirene lo incantano con limpido canto, adagiate sul prato: intorno è un gran mucchio di ossa di uomini putridi con la pelle raggrinzita”, Omero, Odissea, XII, 44-46, trad. it. di G.A. Privitera, Milano, 1995, p. 355].
Per un errore di prospettiva, ingannati dalla stessa connessione interna al racconto omerico, parte degli autori antichi le ritenevano prossime allo Stretto di Messina “…Aux abords du détroit de Messine et du cap Pélôre”, ma generalmente erano localizzate nel tirreno, a sud del golfo di Napoli. Eppure, quest’errore di prospettiva, quest’abbaglio nella determinazione geografica, ha, forse, proprio una liaison con la voce [opa] con cui le stesse Sirene si riferiscono al loro canto, la voce umana: “avec une forte connotation d’harmonie et une fréquente récurrence lorsq’il s’agit de désigner une voix de femme”. D’altra parte, il termine può anche significare “sguardo”, “visione”:
“il s’agit d’un des termes qui rendent compte de la fréquente interférence entre la vision et les mots, qui se produit dans le domaine du langage oraculaire”.
Il potere duplice della parola nel pensiero mitico è espressione di una divinità seducente e doppia: Peitho, la persuasione. Il carattere ambiguo di questo sapere può mascherare il rovesciamento dal positivo al negativo dei “sortilegi dalle parole di miele” che svelano la parentela inquietante fra le muse e le sirene: “Sotto la maschera di Thelxinoe, è una delle muse, sotto quella di Thelxiepeia una delle Sirene”. La Peitho malvagia è espressa con parole “carezzevoli” (haimylioi logoi), sono le trappole dell’inganno(apate), l’analogia fra Muse e Sirene è oppositiva solo riguardo al contenuto del loro sapere. La visione soprannaturale che le Sirene promettono di comunicare al celebre (kudos) Odisseo è voce che implica l’ascolto [“ op’akouses] e trasmette verità delle cause passate e previsione degli stati futuri del mondo sulla base di un sapere [“idmen”] simile sicuramente a quello delle Muse invocate dal poeta dell’Iliade, le figlie di Mnémosyne, un tipo di conoscenza che implica la visione divina [oida].
Odisseo “polúainos” (glorioso) non è semplicemente “kleos”, come ha sottolineato Émile Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indo-europee, il “kudos” omerico gli attribuirebbe una capacità e una potenza di natura quasi magiche. Il loro aspetto, che tanto ha dato da scrivere ai mitografi, è appunto ibrido e metamorfico, in ultima analisi permane enigmatico e, proprio per questo, continua ad essere oltremodo seduttivo. In un brano, incertamente attribuito a Lattanzio Placido, oscuro erudito forse vissuto nel V secolo d. C., le Seirenes sono così descritte:
“Le Sirene erano figlie della Musa Melpomene e del fiume Acheloo. Quando Proserpina fu rapita da Plutone, si misero alla sua ricerca, ma non riuscirono a trovarla. Perciò, alla fine, pregarono gli dèi di trasformarle in uccelli, perché potessero continuare a cercarla non solo sulla terra, ma anche in mare. Gli dèi lo concessero, e la ricerca durò a lungo; infine giunsero ad una roccia a picco sul mare, e lì trovarono dimora. Fu loro permesso di continuare a vivere fino a quando la loro voce fosse ascoltata. Il loro aspetto era per metà uccelli, per metà vergini, con piedi di gallina. Creavano armonie tutte e tre, una con la voce, una con le tibie, la terza con la lira. I marinai che si avvicinavano alle rocce su cui sedute cantavano, attratti dai loro suoni, facevano naufragio – le navi si fracassavano sugli scogli – e le Sirene li divoravano. Solo Ulisse, sfidandole, le spinse alla morte. Mentre passava dinanzi alla loro dimora, turò le orecchie dei compagni perché non le udissero e si fece legare all’albero della nave. In questo modo riuscì a sentire la dolcezza del loro canto e ad evitare il pericolo. Ma il dolore della sconfitta fu per loro così grande che si buttarono in mare e così trovarono la morte. In realtà si trattava di meretrici: dal momento che riducevano in povertà i naviganti, ci s’immaginò che provocassero naufragi. In greco, infatti, si chiamano Seirenes, in latino Trahitoriae, le adescatrici. In tre modi si può adescare: con il canto, con l’aspetto, con la frequentazione. Si dice che fossero volatili perché gli animi degli amanti mutano velocemente. Per questo le si immagina con zampe di gallina, perché tutto quello che si ottiene sotto la spinta della libidine si disperde. Quanto a Ulisse, il cui nome significa quasi “estraneo a tutto” (olon xenos, cioè omnium peregrinus), si dice che sia stato lui a spingerle alla morte, perché la sapienza è estranea a tutte le lusinghe del mondo” [Mith. Vat. II, 123: cf. Kulcsár, 1987, 189s., trad. it. di L. Spina].
D’altronde, è proprio lo stesso nome delle Sirene (Seirenes) che, nel suo fascino profondo, ha generato innumerevoli interpretazioni etimologiche e, forse anche per questo, ha conservato quel potere polisemico che illumina, di volta in volta, solo un aspetto di queste potenze demoniache. Roger Caillois attribuisce loro l’epiteto di seirios (ardente, bruciante) e, in ragione dell’ora del loro agire, le definisce “Les démons de Midi”, in quanto ora di passaggio, temibile e minacciosa: “heure des morts et de la mort à laquelle la force du soleil dessèche et accable”. È certo che, fra i greci antichi, il loro nome venisse associato una sorta di ape selvatica [sirén] e non è un caso che le api femmina (Thries) sono considerate le inventrici della divinazione, animali sacri (ierà zoa) detentrici di sapere sovraumano. R.B. Onians, nel suo The origins of European Thought, traduce il loro nome con “le legatrici” in ragione del rapporto fra Seirén e seirá, corda, catena.
Le Sirene, pertanto, occupano uno spazio intermedio fra la vita e la morte, spazio che condividono con altre creature ibride come le Arpìe o le Erinni, tanto che nell’Elena di Euripide sono presentate come ambasciatrici dirette di Persefone, la regina dell’Ade, vere potenze ctonie, il cui canto, a cui sfugge Odisseo, diviene grido terribile (thespesios) e i tragici lo assimilano ai versi dissonanti ed ipnotici della Sfinge e delle Erinni, ovvero “canto senza lira” [aluros Mousa].
Nelle pagine finali del suo studio, Luigi Tripepi esamina accuratamente l’episodio di Scilla e Cariddi nell’Odissea omerica e nelle fonti letterarie greco-latine. Siamo nuovamente di fronte all’animale mitologico, all’ibrido mostruoso, all’elaborazione del mito nei connotati del rovesciamento morfologico della figura e del suo contenuto. Ovidio nelle Metamorfosi (XII, 372 e sgg.) riferisce che Circe, gelosa di Glauco, inquina l’acqua dove la bellissima ninfa è solita immergersi e la metamorfosi mostruosa, provocata dalla maga ingelosita, colpisce la sfera del femminile spiritualizzato, virginale ed apollineo, rovesciandolo in animalità sfrenata ed incontrollabile:
“Cerbereos rictus pro partibus invenit illis/Statque canum rabie subiectaque terga ferarum Inguinibus truncis uteroque exstante coercet”.
Luigi Tripepi, però, rileggendo la versione poetica che dello stesso mito diede il latinista reggino Diego Vitrioli nello “Xiphias”, ne sottolinea la pietas umanistica, per la quale il divino sottrae la ninfa alla luce, ma non al sacro “… et statuit nitido de marmore templum”. L’immagine della ninfa viene preservata dalla “relligio” come ombra del destino tragico, di cui il “monstrum” è lo specchio frantumato, che manifesta solo la potenza ctonia e tellurica del divino. L’ambiguità tragica della creatura mitica e il suo orrore divengono, pertanto, ethos nella relazione al sacro e possono essere ripensate come simbolo del rapporto rischioso, ma non necessariamente distruttivo, fra il Mito e la Storia.
Questo piccolo testo, dalle pagine ingiallite di carta velina, scritto nel momento più tragico della storia europea del XX secolo, può indurci a riflettere sulle radici più antiche del nostro presente; e può, forse, contribuire ad allontanare la minaccia che, oggi, non è rappresentata più dalle antiche potenze infere, bensì dalla moderna hybris, dall’odio colpevole e arrogante per il sapere storico che, disprezzando lo studio del passato, svuota in modo inevitabile anche il nostro futuro.
Un testo sicuramente da ristampare, da quello che ho letto qui, per consegnare alle giovani generazioni uno spaccato del Mito e dei Miti dello Stretto di Messina e e delle sue popolazioni. Una ricerca estesa, quella del Tripepi, che non va archiviata nei polverosi scaffali di qualche biblioteca.
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