"Una notte doppiamente tenebrosa per oscuramento di guerra e difetto di luna"
Matvejević parla degli isolari, degli
arcipelaghi delle isole della laguna:
isole, porti, fortezze e terre marine
raccontano una storia dell’Adriatico
tutta particolare che si apprende dalla affabulazione,
dalla comunicazione degli altri.
Anche quelli che hanno disegnato gli isolari,
portolani, o descritto terre di mare, si sono fidati
dei racconti e della memoria trasmessa.
E’ come ne "Il Piccolo Principe": il geografo non sa
direttamente, si fida della professionalità degli
esploratori.
La verità geografica sta nella loro moralità. Non
la verità diretta ma quella filtrata: ma è solo un
problema di moralità o non anche dei gradi e della
qualità delle percezioni?
E se ognuno, alla fine, vede attraverso propri filtri,
con il proprio background, e non potrebbe essere
diversamente, avremo isolari e più in generale carte
e descrizioni, non solo mediate, ma condizionate
da singoli fattori culturali.
Ognuno alla Borges
descriverà se stesso e non avrà “visto nulla altro
tranne il viso di una ragazza”.
Bisogna perciò, diceva Martin Buber, far risorgere
la sepolta potenza della relazione, della reciprocità,
della necessità che l’uno stia di fronte all’altro. La parola donata e ricevuta, il dialogo, deve fare da
tramite. Nel tempo della crisi di ogni certezza,
nell’ "epoca senza casa" in cui persino le soggettività
sembrano smarrirsi, bisogna ricominciare daccapo,
rifondando una “noità”, l’io-tu, una struttura
relazionale (Schepis M.F.).
L’isola come approdo felice, l’isola come condanna
esistenziale, l’isola come rischio di alienazione,
l’isola come nodo forte che conserva e struttura
relazioni dalle quali attingere e attraverso le quali
veicolare sapienza e profezie, come intuisce Febvre:
ma cercare la purezza delle culture è illusorio?
In ogni caso, l’isola è noità, è parola scambiata, è
dialogo.
Anche la zattera della Medusa. Talvolta.
Oppure pedagogia del discorso che costruisce vita
nel rapportarsi agli altri, al paesaggio, alle cose,
ai riti che sostanziano manier de voir. Approdi
mirabili, sognati oltre l’orizzonte, metafisica per
eccellenza.
Le arance blues di Vittorini che a dispetto della
puntualizzazione del Nostro (“solo per avventura
Sicilia”), non possono che essere lì, in quel
momento e in quel freddo di giacche insufficienti
e di baveri alzati. Frutti dalle facciuzze quasi rosse
dentro panieri coperti e legati con lo spago.
Ed è un blues che accompagna la traversata
nell’assoluto del silenzio dello sciabordio appena
avvertito del frangersi della spuma contro il vecchio
ferryboat (ferribotto).
E gli “astratti furori” non possono certo placarsi
fra siciliani “piccoli e come bruciacchiati dal vento”
e donne “dalla femminilità voluminosa” nella non
attesa dello sbarco. Una mano che si insinua in
un paniere e un frutto che viene rifiutato da una
moglie che si scopre essere bambina. Tutto questo
non può avvenire altrove.
Eppure "quegli astratti furori" cercano refrigerio
solo in questa terra di frontiera, dall’ambigua
anima tra Africa ed Europa.
Arcipelago più che isola, monadi di singolarità
spirituali e unità di coscienza. Da un capo all’altro,
passando per il centro, piccole isole di identità
diverse con un linguaggio che dentro sfumature
ora assonanti ora no, riconducono a strade che
finiscono in mare.
Barriera o punto di fuga?
E poi ancora, quanto dista l’altrove?
L’uomo Ezechiele ha intuito che il mondo è offeso
ma di queste offese sa solo scrivere. Da molto
tempo questo e anche lui è “a capo chino”.
Piccoli e curvi siciliani, come bruciacchiati dallo
scirocco che li investe per passare altrove e sfumare
verso terre più lontane. Solarità eccessiva che più
che illuminare acceca, abbioscia e non si traduce
in canto.
E il ripartire infine con arsura di “conchiglia
soffiata da pastori.... passo di aironi nell’aria di
verdi altipiani..” e aliti di scirocco.
Arsura che non si placa nella quiete di salsedine,
di grida di gabbiani invisibili sospesi sulle acque di
“Scill’e Cariddi” di ‘Ndrja Cambria.
Non nell’approdo sul lembo partenza per l’altrove.
E già rumore di rotaie verso acque oscure, nenia
che lenisce fino a placare.
La salvezza è nell’attraversare lo Stretto
allontanandosi dal richiamo. Ma fino a quando?
Quanto si resiste se la lontananza da questa madre
diventa dolore?
E infine, di nuovo il ritorno. E di nuovo il blues.
E ‘Ndrja Cambria nel suo Stretto e Santiago, il
vecchio “Salao” di Hemingway, nel suo Oceano,
lottano fino alla fine.
Il primo sprofonderà dove “il mare è più mare”,
il secondo si addormenterà, sognando i leoni che,
da ragazzo, aveva visto passeggiare lungo le spiagge
d’Africa, stanco della lotta immane sostenuta per trarre a riva il suo tiburon o quello che ne è
rimasto.
Mostruoso pescecane quello di Santiago quanto
mostruosa è l’apparizione inquietante dell’Orca
per ‘Ndrja.
Per entrambi presagio di morte?
Mare che si fa riva ad altri mari dove terre
affiorano ad interromperne la fuga. Acque che
cullano, grembo materno che nutre e protegge
ma che infine ci rifiuta consegnandoci all’ignoto e
condannandoci ad un eterno vago rimpianto che
sfuma nell’onirico.
E l’isola in questa funzione diventa luogo che per
magia sconfina tra il reale e l’irreale, luogo della
nostra memoria bambina, di tesori fiabeschi
oggetti di desiderio per pirati o testimonianze da
consacrare e fonti d’ispirazione per poeti.
Terra da saccheggiare o da custodire.
Non mura ma rive che la contengono lasciandola
preda, nella dimensione magica di Prospero e Ariele,
creatura di vento, o in quella avventurosa di Jim, il
ragazzo che salpa alla ricerca del tesoro, o in quella,
del purgatorio-laboratorio, di Robinson Crusoè, o
l’altra misteriosa di Verne, che deve inabissarsi per
portarsi dietro il mistero.
Così anche ‘Ntoni maturerà il senso del proprio
fallimento, come separazione dal mondo arcaicorurale,
verso l’immaginazione trasfigurata che fa
sì che "pensando a tante cose…tornò a pensare
a tutta la sua storia", e guarda le luci, e ascolta il
respiro del mare, e il risveglio e i suoni e i gesti nella
stabilità rassicurante della ripetizione.
E tra l’abisso e il sogno dell’isola, l’elemento
primario, il mare, nel suo ingombrante
protagonismo, e i nuclei forti che si diramano dal
suo essere metafora. Il mare che le isole le contorna
o le sfrangia o le recinge.
Dal sinfonismo barocco di D’Arrigo, all’elegia
color di pece di Verga, all’intimismo iperrealista di
Raymond Carver:... anche le grandi correnti hanno il
mio cuore… i luoghi dove l’acqua viene sempre verso
altre acque.
L’investigazione antropologica di fattori
omogeneizzanti, nell’era della costruzione della
finzione mediatica, dice Marc Augé, potrà condurci
all’etno-fiction.
E la verità allora? Senza più esploratori. La
letteratura ne può fare le veci? Così Omero ed
Esiodo costruiscono il mito delle isole fortunate,
delle isole felici: raccontano con accenni diversi
di un luogo, lontano, ad Occidente, in cui gli dei
relegano uomini ed eroi a vivere una vita beata,
isole dove i frutti nascono da se stessi e dove, lo
racconta anche Pindaro, soprattutto non si muore.
Seguendo questo mitogema nella letteratura greca
e latina da Diodoro a Plutarco, da Orazio a Plinio,
forse è possibile dire che il mito ha finito con il
subire trasposizioni dalla fantasia a punti geografici
noti che ciascuno ha dato per veri.
Torniamo al “se
penso l’isola esiste”.
Vista nell’ottica del pensiero-realtà prende corpo
anche Utopia, isola-sogno per antonomasia.
Ma è un sogno che si perde nel momento stesso
in cui si programma una società che funzioni
eliminando chi disturba. Ed è altrettanto vero
che il Sogno spazia nell’incanto, nel desiderio di
qualcosa che necessariamente si identifichi con il
raggiungimento della felicità. Realizzare un sogno
è Felicità e, vista da fuori, l’Utopia di Thomas
Moore non è questo perché uguaglianza e giustizia
sono prodotti della ragione e non costruzioni
d’amore.
L’individualismo, l’isolamento e la mancanza di
confronto portano a spegnersi nel sé, nella difesa
del proprio e a vivere nell’ombra. E’ questo che
vede il Poe nella sua “Isola della Fata” sbirciando tra il verde delle foglie dell’incanto, tra il volo di
“farfalle simili a petali di tulipano” e tra cortecce
che il sicomoro cede alle acque.
E’ dentro la meraviglia che si nasconde l’ombra
della morte se la canoa non riesce ad allontanarsi
dalle rive.
E’ lo stesso alone di fatalità che accompagna la
presenza dell’ “Orca orcinusa, la Morte in una
parola, la Morte marina” nello Stretto di “Scill’e
Cariddi”.
Anche se la stessa bestia si presenta nella sua duplice
natura di ferone che dà spettacolo e sembra voglia
divertire chi la guarda e nella veste di Morte.
Così lo "Scill’e Cariddi" di Stefano D’Arrigo intercetta il
mito oceanico della storia, il fantastico potere
dell’intreccio di motivi arcaici del mito e della
guerra per dare vita violenta e lirica agli elementi
del tempo, del paesaggio, del mare e della terra,
delle rocce risonanti di echi, delle orche portatrici
di morte e di slancio vitale (George Steiner G.)
Questo spazio, questo universo si identificano
nel carattere visionario-maniacale del libro di
D’Arrigo.
Con il pathos e la cadenza lirica di Vittorini, dice
Pontiggia, c’è tenerezza intimità, idillio, paesaggio
familiare e paesaggio grandioso, in un ampliamento
della visione, come per Verga nella dimensione
più popolare e più arcaica. Qui è anche come se
parlassero le voci del paese, in una molteplicità
di echi e di testimonianze, ma in accentuazioni
epiche.
Quelle di Melville? Certo lì matrici bibliche
e planetarie, discendenze antropologiche
mediterranee. E le implicazioni simboliche non
cadono nell’astrazione.
Lo spazio può essere definito in un non luogo,
potenzialmente trasformabile in questo luogo dello Scill’e Cariddi.
Un luogo, con le risonanze bibliche e di Odisseo,
con le geometrie e le funzioni di una naturalità di
sangue pestato (Gatta F.).
E forse è vero che lo spazio colto nel vissuto dei
singoli è definibile soprattutto in termini di
simbolica, proprio perché si esprime in forme
immaginali: perfino in un infinitamente informe
o nella definizione perimetrata che lo topicizza. In impalpabili pulsioni proiettive.
Anche questa è la topogenesi di Horcynus, letta
nell’oscuramento di guerra e nel difetto di luna.
Prendiamo ad esempio il barocco visionario fino
al grottesco dell’inseguimento erotico delle fere
o dell’orcaferone, il Leviatano, che dà morte e
muore.
“Là allora allora doveva essere morto, in quella
grande fossa di sangue scavata come per riceverlo
in quel mare sbranato e agonizzante di fere… Era
morto senza dubbio così, conseguentemente:
dando morte alla morte”.
I fili si riannodano nel progressivo dilagare del
mondo fantastico degli spiaggiatori, nell’ora
tormentosa “di chi va sinché è giorno rivariva al
mare e, venendo la notte, comincia a cercarsi con gli
occhi una barca, un nascondiglio dove fermarsi…”. E l’Orca è metaforicamente il mare, con i pescatori
in perenne lotta di sopravvivenza.
‘Ndrja ha imparato nei secoli a tendere le orecchie
per captare la voce straziante del deserto che arriva,
che investe e brucia, la voce del mare che urla la
tempesta alla “Provvidenza” con il carico di luppini
e il tuono lontano della montagna che si risveglia o
rumori di risacche mutanti per approdi pirati.
Può tutto questo portare a essere Vinti? E a vivere
una vita da Vinti? Tutto lo lascerebbe credere se
il Verga non intravedesse una “ricchezza” anzi “la ricchezza” dentro le “misere casupole sgangherate
e pittoresche dei poveri diavoli”.
“I valori immutabili, le tradizioni, l’autenticità, i
sentimenti nell’arcaicità del mondo rurale” (Verga
G.) che padron ‘Ntoni incarna sembra non bastino
se qualche ribelle sente che la salvezza sta oltre
lo stretto, oltre tutti gli stretti, soprattutto nella
“largasia d’Oceani”.
Ma padron ‘Ntoni, intanto che “la Provvidenza era
scivolata in mare come un’ anitra…” anche lui se
la godeva “con le mani dietro la schiena e le gambe
aperte…così tornano il bel sole e le dolci mattine
d’inverno, anche per gli occhi che hanno pianto, e
li hanno visti color della pece, (perché) ogni cosa si
rinnova come la Provvidenza”.
Qualsiasi muro o riva di fronte a questa smania, a
questo sentire, crolla o svanisce purché libertà sia.
E’ lo stesso sentire di Ulisse che ha già visitato tutte
le isole, tutte le coste del Mediterraneo ma insegue
la Conoscenza oltre il proibito. L’astuto Uomo di
Itaca ha superato tutte le prove, ha trovato una
via di fuga da ogni sortilegio, è andato persino
nell’Ade ad incontrare i morti e quando finalmente
torna alla sua isola, ai suoi affetti, “né dolcezza di
figlio, né la pietà del vecchio padre” né l’amore per
Penelope riusciranno a strapparlo al richiamo di
“Lighea” (Tomasi di Lampedusa G.).
“Vecchi e tardi” Ulisse e i suoi compagni, ma
forse proprio per questo la voce della Sirena è più
struggente. Oltre l’orizzonte, verso altri orizzonti
fino ad arrivare alla “foce stretta” ed oltre dove
vedranno anche se da lontano il Paradiso terrestre
prima che il “mare fu sopra noi richiuso” (Dante).
Il silenzio della morte che placa ogni tempesta. La
morte che arriva quando siamo ad un passo dalla
Conoscenza. Il paradiso dunque è collocato in
“largasia d’Oceano”, cioè fuori da tutto ciò che è
dentro il mare chiuso e quindi fuori anche dalle
isole.
Isola anche questo, montagna alta quanto
mai l’occhio umano abbia visto. Ma il volerlo
raggiungere staccandosi dagli affetti e dalla propria
Casa porta alla morte come uscire fuori da se stessi,
spersonalizzarsi per adattarsi ad una realtà altra da
noi.
Sono i silenzi a parlare nell’isola, suoni bisbigliati,
musica che trasmette percezioni più che pensieri
articolati. E dentro fuoco di rabbia pronta ad
esplodere.
E la fiaba magica del “figlio del re di corona, bello
come il sole” (G. Verga, 1881) che porta via sul suo
cavallo bianco, non è fiaba per Lia dei Malavoglia
se il regno è “lontano, lontano…d’onde non si
torna più”.
La “largasia d’Oceani” e l’attraversarli in questo caso
non è conquista di spazi ma perdersi nell’ignoto,
oltre la “foce stretta” che fino a quel momento è
stata la Porta per ognuno di noi.
Si può accettare anche la perdita del carico di
luppini e la miseria se è troppo doloroso “lasciarsi
dietro per la strada .. i sassi che ci conoscono” e
andare dove “il sole non entrerà più dalla tua
finestra” dove valigie legate con lo spago sono
stigmate portate dal “treno del Sole” che alla
Speranza è arrivato allontanandosene dal Sole, per
inoltrarsi nei silenzi del verde che sa di nebbia e di
acqua silente e profonda. Stridio di freni alla fine
del viaggio come grido di un’anima che non può
più guardare indietro.
E “Rocco e i suoi fratelli” (Visconti L.)
sperimenteranno, molto più in là, quanto tragico
possa essere rincorrere il Mito, liberatorio dalla miseria, con la perdita dell’innocenza in una città
gelida e respingente, il cui “sentire” sfugge fino a
stordirci di estraneità. Allo stesso modo distacco-morte
per ‘Ntoni se non vedrà più luccicare i Tre
Re e non ci sarà la stella Puddara ad annunciargli
l’alba.
Ma la morte è anche il destino del popolo che non
sa conservare la propria storia, la propria lingua. “Le
mura di Sana’a” pasoliniane sono rive di qualsiasi
mare e mura di qualsiasi città a difesa delle società
autoctone “in nome degli uomini semplici che la
povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia
dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza
rivoluzionaria del passato”. In nome infine di una frusta schioccata in silenziose
movenze contro il vento per preservare il grano
dagli uccelli (Murri S.).
Movimento ripetuto all’infinito per il più
elementare gesto: quello di difendere ciò che ci
appartiene.
Uccelli si succedono ad altri uccelli e i sassi che
conoscono ‘Ntoni rischiano di non essere più
riconosciuti a loro volta dal ragazzo. Una perdita
nella perdita.
Sognare pennellate aurorali su “Scill’e
Cariddi” dimenticandone i vortici che risucchiano
e il pericolo che vi si annida.
Ritorno forse verso l’immaginario che appartiene
ai ricordi ma che per questo si fa più struggente. Risposta ad un richiamo che non ha un nome né
un volto preciso. Piccoli, meravigliosi sassi che
segnano una strada del cuore e che perciò non
possono avere altro nome, altro posto che quello.
Il richiamo è musica che viene dal muto esistere
delle cose che hanno voce di sirena, e della presenza
minacciosa di Horcynus, della montagna incantata
che ha nelle viscere tutto il fuoco della Terra.
E ci catapulta in schemi d’arte che non è la vita
stessa, che è finzione.
E “basterà un olivo saraceno in mezzo alla scena”
(Sciascia L.) per tirarvi il tendone, con Luigi
Pirandello.
Un olivo per l’enorme teatro che è Sicilia.
Lo spazio immaginato dà un senso di morte e
di vita che le astrazioni non saprebbero suscitare
mentre le immagini perimetrano, diciamo di più,
geografano la naturalità.
E’ un viaggio quello nel testo fatto di meandri
infiniti perlustrati in un andare e venire che
appartiene ai dizionari della mente, in un orizzonte
geografico di un mare che non c’è più. Un viaggiare
che è tramonto, in un orientamento spaziale, in un
orizzonte geografico che è un giorno del modo, al
ritmo del vivere.
Il mare si farà, nella calmeria di scirocco, rema e
per questo ”le Isole erano scomparse alla sua vista
dietro Capo Milazzo e Stromboli, Vulcano e Lipari,
che intravedeva sempre per la prima volta distanti e
da terra, dopo averle viste dalla palamitara, salendo
per il Golfo dell’Aria, sembravano evaporare come
carcasse di balene cadute in bonaccia”.
Questa un’icona dell’immensa geografia di
Horcynus, con le sue anse, le sue sospensioni,
le attese in una lingua popolare addomesticata e
reinventata, col soccorso della lingua dell’anima.
E ‘Ndria corre con la sua permanente nostalgia
verso la ricerca di un immaginario ritorno felice
sullo Scill’e Cariddi.
Così “verso la punta del promontorio delle
femminote, il cielo davanti a lui passava dall’ardente
imporporato a una caligine di guizzi catramosi”
e poi “la notte senza luna sopraggiunse di colpo
con quel repentino e temporalesco passare dalla
luce all’oscurità con cui cadono, anche nella più
chiara estate, le notti di luna mancante” e “…
qualcosa, in Sicilia, che per la coloritura violacea
riflessa dall’acqua, sembrava una grande truffa
di buganvillea pendente sulla linea dei due mari,
brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia… ”.
Geometrie, natura immagini che si ricuciono nel
cronospazio delle grammatiche di una geografia
sperimentale e ideale assieme. Percezioni che si
accavallano a ricordi, dal mare pestato all’agonia
dello spada.
Ancora l’inafferrabile complessità del mondo, in
un vortice metaforico, dove ognuno soffre le pene
sue, secondo il filo della matassa intricata, in una
cascata di aggettivi e di nomi: sunt lacrimae rerum,
dove u jornu è masculu e fa i fatti, ‘a notte è fimmina
e fa i chiaccheri. La rappresentazione fa esistere qui ed altrove i segni
del mondo, le grammatiche dell’esistere, in un
luogo che non è solo questo luogo, ma palcoscenico
con i fondali dell’altrove.
E alla fine gli occhi “pigliarono a far fargli la
lagrima. Inattesa, come per conto suo, la lagrima
gli sgocciolava sul ciglio come lo stillare di un
lontano pianto…” come se qualcosa al vecchio "…lo avesse immalinconito (…) ed era quando si
era taciuto …come se …quel rinfocolio di vita se
ne andasse da lui rifacendogli dentro (…) il senso di solitudine del suo piaggiare (…) come se il sole
che tramontava in cielo, tramontasse anche lì, nei
suoi occhi, in lui".
La stupefacente potenzialità del morire riguarderà
soprattutto ‘Ndria, come se sporgesse volontariamente
la fronte alla pallottola, e quella gli scoppiò in mezzo
agli occhi "con una vampata che lo gettò per sempre
nelle tenebre".
Non avrebbe potuto morire di orche, ma al limen
dell’oscuramento di guerra.
Così lussureggiante e barocca la vita, così stringato
il deprofundis del morire. Altrove se si era parlato
del rombo soffocato, abissale della loro vita, e si era
anche detto del silenzio fragoroso, assordante della
loro morte. Ma chi non conserva nel ricordo di quel
nostro pregar sul pavimento le sonorità arcane della
liturgia dei morti.
Anche nei luoghi dove la morte soldatara, non è la
solita morte di sempre, borghesara.
‘Ndria cercherà il fragoroso silenzio in un mare di
lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro,
dove il mare è mare.
La narrazione mette in musica
l’emozione..
La “Sicilia è un isola, la Sicilia è un’isola e la
Sicilia è un isola…lo ripetette tre volte”. I carusi si
puliciarono ma non trovarono niente da ridire.
Anche se poi per la strada si domandavano che
“aveva inteso dire col fatto che la Sicilia è un’isola
e che gli rappresentava la testa di femmina con
le tre gambe (…) volevano spiegate pure le tre
gambe”…, poi se ne scordarono, perché c’era una
barca: “certo, una lancia come quella lì fa scordare
pure un femmina con sei gambe”.
Noi non lo abbiamo scordato. Non avevamo la
barca.
Giuseppe Campione
Pubblicato anche su Moleskine nell'aprile 2012
Ha collaborato alle ricerche bibliografiche e
alla
rilettura e integrazione del testo Giovanna Nobile.
Cara Nelly', è tutto un bel dire,profondo,intenso,appassionante,mitico,surreale e tanto tanto sentito da chi ha vissuto e vive mari mari e terraterra da matina a sira senza staccare i remi e l'occhi a dda bedda tavulata increspata e liscia comu l'ogghiu da frittura di pisci, si Diu vurrà..- E' una affascinante tesi ed ipotesi insieme che sviluppa dentro coordinate geografiche e mitologiche,racconta i passaggi di mille e mille conquistadores incantati dal suono delle ninfe e nei lembi estremi , ecco : Scilla e dirimpettaia la nostra Cariddi. Leggendo le riflessioni ,certamente di chi ha molto studiato (forse più che navigato), non mi era chiaro si trattasse del nostro 'misterioso' Territorio, ma poi..., tra notevoli e pregnanti sottolineature sono apparse le voci dei grandi 'nustrani siciliani' e non sulu...- Tante storie legate e scucite ,annegate e riemerse dai flutti impetuosi e ribelli... tante grida e disordinati capelli...- Vedo con intensità e sento da messinese ,le poesie quasimodiane... ed i vagani spinti e ripresi e sù e dintra a panza di ferubotti. I profumi delle arance, gelsomini... a zagaza... e u ciaru di pisci piscati a riba o mari. E' tutta una festa d'amore, una preghiera ita y vuelta...,una commozione piena al ritorno dei barconi e la gioia dei bimbi e dei cagnolini attorno. Profondo è ancora il pensiero rivolto ai maestri di Ellas, il grande Omero con l'Ulisse legato al palo più alto della sua ultima speranza ... ed i canti urtano i legni umidissimi. Potremmo discutere di altri autori illustri, ma credo che ripeteremmo ogni altra felicissima considerazione sul bel testo, che leggeremo con interesse ,soffermandoci ad ogni 'piè sospinto'. Grazie ed auguri a tutti. Roberto Lo Presti -
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