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LA MEMORIA DELL'OFFESA. GLI OLOCAUSTI DEL '92

Una profonda rievocazione delle stragi di mafia, la reazione della politica e la genesi dell’Appello ai Siciliani. 



"Vorrei, dopo la mia morte, rincontrare i miei vecchi amici e parlare con loro del bel futuro e ridere, ridere molto delle nostre difficili scelte. Io da morto, loro da vivi. E fare una gran festa tra i vivi e i morti". Michele Perriera (I nostri tempi, Sellerio, 2009)


A fine giugno, in centomila per Giovanni Falcone, la moglie e per gli uomini della scorta; la città abitata dal ricordo e dallo strazio: la memoria dell'offesa. Le morti adagiate su cuscini di mafia, nelle chiese normanne e barocche: in scena il dolore al tempo della post-umanità. E quel giorno, nella ricorrenza della strage, con i geografi riuniti in convegno nazionale all’Utveggio, una molteplicità di riflessioni rivolte al futuro; in molti esprimevamo un commosso straziato ricordo.


Parlavamo di un nostro muoverci tra malinconia e impotenza, qualcuno parlava della cultura come consolazione. Come se si prefigurassero le coordinate di quello che sarebbe stato l'Appello ai Siciliani, voluto da noi con Michele Perriera: quasi si invocasse una rivoluzione culturale per sradicare la condizione mafiosa da un contesto di società e per rendere gentile il destino della nostra terra. Lontani dal rischio della retorica delle celebrazioni e dalla ricerca di autogiustificazioni, in una dolorosa assunzione di responsabilità. Nella doverosa necessità di interrogarci sulle geografie del vissuto, anche sul dolore degli uomini.


Se le lacrime di un bambino mettono in discussione l'onnipotenza di Dio, se dopo Auschwitz addirittura si può decretare la fine di questa onnipotenza, com'è possibile pensare che questo dolore non cambi la terra, e noi geografi raccontiamo la terra, abitiamo le distanze. L'etica del sapere è l'etica della vita, della libertà, della pace. E soprattutto dei perché e degli effetti. Delle tragedie diverse e sempre uguali, con delitti di mafia, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie, mutilazioni, morte, disumanizzazione: una paura che mangia l'anima. La geografia di uomini a perdere continua.

Bartolomé de Las Casas nel 1552 raccontò dell'impegno evangelizzatore disatteso e della brutale colonizzazione, dello sfruttamento spietato e delle devastazioni delle terre d'America. E, con l'Ecclesiaste, sdegnato, ripeteva: un sacrificio iniquo è un offerta macchiata. Dio non gradisce i doni degli empi. «Le mostruosità che si compiono ai danni di quegli innocenti, che vengono massacrati e distrutti senza causa né giusta ragione, ma unicamente per colpa della sfrenatezza e della cupidigia.».


E a che titolo allora gli uomini del Palazzo, a Palermo, si stracceranno le vesti, addirittura in nome di "radici cristiane" disattese? Il dolore è più vicino. Una geografia dell' anima, allora? La Sicilia è un paese dove la morte è spettacolo, dove “la morte suona lunghi clarini all' arrivo delle primavere e la sua arte è sempre sorretta da un duende acuto, che la differenzia e le dà una sua qualità d'invenzione”. In una condizione di dolore che non può essere barattata e che divora l'anima nel turbinio di un apocalisse che non lascia vedere nuovi cieli e nuove terre. Fin qui il disperato salmodiare da intellettuali smarriti nell’utopia dell’attesa, a fine giugno, sulla collina palermitana.

Ma la rivolta indignata di massa, il cambiamento simultaneo di consapevolezze romane, dovevano produrre nuova consapevolezza della tragedia anche in ambienti della politica regionale. La sinistra cristiana, pur tra resistenze e riserve, e i post-comunisti, affrancati dalle implosioni epocali, nonostante talune perplessità oltranziste, decisero che era tempo di sperimentare, per la prima volta nella vita dell’Autonomia, una fase di comune responsabilità. Per venir fuori dal baratro, immaginando assieme percorsi su piattaforme che puntassero a determinare un salto di qualità delle istituzioni. Immaginando che una maggiore impermeabilità alle infiltrazioni mafiose potesse essere idonea a far maturare consenso, non più filtrato da mediazioni improprie. Per una nuova capacità di cogliere i  nessi tra le azioni (e la cultura) di mafia e i disinvolti, compromissori comportamenti della politica.

Si giunse così nella prima decade di luglio alla formazione di un governo. E fu come se si inverasse quel paradosso di Gustavo Zagrebelsky che affermava che, laddove si è in presenza di un sistema deteriorato al massimo, può accadere che, proprio dal suo degradare senza speranza, talvolta, paradossalmente appunto, possano discenderne insperati processi di riconversione. Un governo paradossale, allora. Capace di scontri decisi con i percettori di rendite parassitarie, non solo, ma di esorcizzare l’abituale riferimento alle finanze regionali come crocevia di un gigantesco scambio politico mafioso. E di riassegnare alla politica la opportunità di determinare regole, di ampliare sfere di cittadinanza, di progettare azioni per il futuro, controllandone mezzi e fini. In sostanza il work in progress del nuovo governo si incentrava su un riappropriarsi della politica come filosofia dei fini, dei mezzi e del perché, in nome di una possibile strategia di liberazione.


Consapevoli che la resistenza all’oppressione mafiosa doveva recuperare alle regole di una civile convivenza consuetudini ormai di massa, cultura diffusa, comportamenti dettati anche da una sorta di opinio iuris ac necessitatis che nel tempo aveva finito di sostanziare una particolare antropologia. E l’"anticivismo" di Putnam o il "familismo amorale" di Banfield, soltanto sindromi autosvalutanti? Non avrebbero potuto non interrogare i modi consolidati del far politica, la struttura solidificata del potere, lo scandalo delle intraprese e delle rendite partitocratiche.

Per questo Aldo Moro aveva parlato, in un contesto più generale, di una terza fase, diciamo ricostruttiva, caratterizzata, pur nelle differenze, da condivise consapevolezze di cattolici e comunisti, per questo, in una lettera dalla prigionia, aveva scritto a Zaccagnini: “La verità è che pensiamo di far evolvere la situazione con nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare, nell’illusione che, cambiati gli altri, l’insieme cambi e cambi anche il Paese (…). Ebbene, caro Segretario, non è così. Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi”.

Questo "cambiare anche noi" diventa la sostanza di una insolita convergenza; una possibilità di cambiare invero tutta da sperimentare, senza velleitarismi, ma con linearità e tenacia, nella convinzione che l’utopia non è solo confinata in territori che sembrano non esserci ma, soprattutto, “antigeografia dell’esistente”. Ed è nel mezzo di questo ritrovarci in ragionamenti, studi e proponimenti, domenica 19 luglio, pomeriggio, che avviene la spaventosa esplosione di via D’Amelio che massacra Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.



“La morte di Borsellino - polverizzato dallo scoppio di un auto bomba sotto la casa della madre -attesa da tutti, più ancora di quella di Falcone e puntualmente avvenuta in modo desolante”, scriveva Michele Perriera. Sbigottimento, angoscia, orrore si aggiungono al clima già saturo di esecrazione e, per molti impegnati a livello pubblico, di confusi, indicibili, allucinanti sensi di colpa, che magari a poco a poco si adageranno nelle consuete liturgie di un giustificazionismo, tutt’al più commosso. Il senso comune oscillerà, come di norma, tra sdegno e presa d’atto di un incomprensibile destino, quasi una maledizione. Per via della terribilmente lunga teoria di magistrati, di poliziotti, di politici, prima di giornalisti, sindacalisti, funzionari, imprenditori, cittadini caduti sui fronti di mafia, è come se ci si fosse abituati a convivere con la mostruosità degli avvenimenti.

E poi, ci ricorda Barbara Spinelli, è ai più occorre un bisogno, per uscire dall’emozione, di “serenità (…), una via aurea che non ha nulla a vedere con la calma…con la paziente rettifica di errori”. Invece ecco un riemergere di stereotipi vittimistici: “E’ tutto fango sulla Sicilia, su Palermo. I delitti appartengono a logiche misteriose, ma la città non c’entra”. Forse è d’uopo ricordare il cardinale, che piangeva per Palermo dissacrata per via di una politica aggressiva che esasperava i fatti di mafia per colpire la nostra inconsapevole innocenza; oppure un altro cardinale che, pur con diversa cultura e sensibilità, sperava che la morte di Pier Santi Mattarella si potesse attribuire a poteri altri, estranei alla Sicilia, e intanto lamentava che le burocrazie romane cincischiavano mentre Palermo-Sagunto veniva espugnata…o ricordare un sindaco che aveva visto i corpi dilaniati di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sua sposa e non aveva potuto trattenere le lacrime e diceva tra sè e sé: “Povera Palermo!”. Dio... che il sindaco, in quell’aula d’ingegneria, dove, per la prima volta nella nostra storia, la d.c. parlava - ore rotundo - di mafia, avesse pianto per quei poveri amici eroi, morti anche per mano nostra, proprio in una guerra che avrebbe dovuto essere di liberazione!

Ed è in questo scenario tragico, reso ancora più coinvolgente dalla memoria di vissuti personali così spesso dilaniati, che si pensò in sede di governo di comunicare invece lo strazio che si era impadronito di noi, con severe analisi e possibili, non rituali, linee di risposta. Con una rottura comunicativa idonea a coniugare, insieme all’indignazione e al riconoscente omaggio ai “nostri poveri eroi”, una franca rilettura della nostra storia, una ricerca sul perché del tempo colpevolmente perduto, la necessità di comune assunzione di responsabilità, e infine opzioni per una possibile liberazione: subito, proprio per il primario ruolo di responsabilità che avevamo assunto di fronte alla Sicilia e al Paese.

La responsabilità del futuro, appunto, pur con una non celata pratica del dubbio, “senza la paura che dissuade dall’azione, ma che esorta a compierla”. Insomma: “invece di gettare la spugna, osare”, come se lo sdegno per l’ingiustizia potesse riuscire a costruire emozioni trasformatrici, riducendo “l’incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo”. Tuttavia in quei gorghi, pensavamo, bisogna discendere, quei morti, tutto il nostro pesantissimo carico di morti, non solo vanno onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta. Ma che tutto questo dovesse confinarsi nei saloni di Palazzo D’Orleans, o nelle procedure di Palazzo dei Normanni non avrebbe avuto senso.

Bisognava, di fronte alla Sicilia e al Paese tutto, tradurre stati d’animo, pensieri, propositi in qualcosa che ridesse significato, ruolo, speranza a un ritrovato primato civile che pur doveva riprendere il filo della storia lungo un difficile, terribile percorso di sostanziale discontinuità, senza rimozioni o denegazioni. Chi poteva trovare parole che scolpissero storia, responsabilità, tragedie e futuro. Parole come viatico. Andavo confusamente a Calamandrei, alle sue parole per le Ardeatine. Ma nessuno di noi sarebbe stato in grado di ordinare emozioni, di articolare schemi lucidi di espressione. Pensavo alle ragioni di Adorno quando aveva scritto che non si poteva scrivere più poesia dopo Auschwitz. E allora le parole e la vita e la memoria e l’impossibilità di farne a meno? E tutto ciò che resta quando tutto sembra finire? Una capacità di trasformazione nell’attraversamento dell’esistenza?

Michele Perriera come un’epifania… ed ecco l’Appello ai Siciliani. Come un’epifania di verità… con parole di consistenza inusitata, che sanno di rovesciamenti, che negano coraggiosamente qualsiasi tentazione consolatoria, che trovano la loro misura in un procedere fermo, declinato dalla consapevolezza. Una consapevolezza che splende, trascendendo il logos di una storia vissuta in una rappresentazione degli universali possibili, in una sintesi concettuale di poesia e pensiero. Un pensiero poetante, appunto, che si fa carico dell’attualità e delle finalità di un messaggio:


"Una nuova strage colpisce la Sicilia, già tante volte dilaniata da un potere segreto che non conosce altro linguaggio se non quello della rapina e della morte.  Ancora una volta avvertiamo, assieme a un dolore inconsolabile, l'evidenza di una verità che non conosce sfumature: noi siamo prigionieri della mafia ed essa controlla la nostra schiavitù con la ferocia di un aguzzino sanguinario. Non bastano più né le parole di cordoglio né le dichiarazioni di buoni propositi. La cecità e la viltà di certi politici, gli squallidi interessi dei faccendieri, la connivenza di corrotti e di miserabili ci ha tolto ogni dignità umana e noi ci sentiamo ora come in gabbia. Non bastano più né le parole di cordoglio né le dichiarazioni di buoni propositi. Ora è tempo di riconoscere le nostre responsabilità storiche, di Siciliani; di chiamare alle sue - gravissime - lo stato italiano; di denunciare i poteri occulti nazionali e internazionali; di snidare e isolare tutti i numerosi collaborazionisti della mafia che si annidano nella politica, nella burocrazia, negli affari e nella società.  Ora è tempo di fare politica per i bisogni reali, per la verità, per la qualità del nostro presente e del nostro futuro.  E in queste direzioni il governo regionale intende assolvere i suoi doveri più rigorosi. Ma è anche tempo di chiedersi se i Siciliani siamo un popolo; se questo popolo - troppo a lungo oppresso - ha l'orgoglio e la dignità dei veri popoli. Ora è tempo di dimostrare che siamo o possiamo essere solidali quanto basta per compiere il nostro diritto e il nostro dovere di popolo: quello di inaugurare una vera resistenza contro l'usurpazione mafiosa. Ognuno di noi è dunque chiamato a collaborare perché sia reso gentile il destino della nostra terra, della nostra vita, della vita dei nostri cari e dei nostri amici. I nostri poveri morti ammazzati si onorano soprattutto con un vero e proprio risorgimento siciliano, occasione storica perché la nostra splendida terra, ricca di intelligenza e di affetti, sappia infine concepire e vedere all'orizzonte il bene civile della libertà.  Ma nessuno ci libererà mai abbastanza, neanche i nostri poveri eroi, se non faremo una lotta popolare di liberazione dalla mafia, dai suoi complici e dai suoi aspiratori. La nostra resistenza dovrà essere intelligente e inesorabile, poiché dovrà misurarsi con l'astuzia dell'avversario e sfuggire alle sue reazioni violente. Ma nessuno ci salverà da un costante pericolo di morte e dalla progressiva desolazione, se non saremo solidali nel tentare di scoprire, isolare e catturare i nemici della nostra libertà. La resistenza alla mafia, più che un dovere, è un diritto di vita.  Non più eroi - poveri, carissimi, indimenticabili eroi morti - ma un popolo che prepari la sua grande fuga da una schiavitù ingiusta e umiliante. Un intero popolo che sa risorgere alla vita civile".
Giuseppe Campione, Palermo 20 luglio 1992

Ed è evidente come qui la parola vada assumendo altre dimensioni, quali la sua capacità di farsi evento profetico, mantenendo per intero la sua natura di "manifesto", per la sua capacità appunto, sorta su un esperienza, di interpellare la coscienza, coinvolgendo l’intimo della persona in un rapporto profondo di richiesta e di risposta, “con l’intenzionalità veritativa del Logos o del Verbum”.
Ecco, avrebbe potuto dire Adorno, vista la straordinaria corrispondenza tra le nostre intenzioni e la luminosità del linguaggio di Perriera, “i nostri sogni sono collegati tra loro non solo come ‘nostri’, ma formano anche un continuum, fanno parte di un mondo unitario…".


Ma andiamo al racconto sulla genesi dell’Appello, la sera del 19 luglio, fatto dallo stesso Michele Perriera:

“… Forse solo il futuro toglierà la maschera al nostro torbido presente. Che lo faccia presto e bene, prima che sia troppo tardi. Ma intanto bisogna resistere, subito, prima che l’orrore si stenda dentro di noi, prima che vi prenda riposo. Guardare al futuro con occhi stranieri in terra di massacri. Vengo da una terra presa da peste. 'Cerco un elisir di futuro'. Si veglia intontiti, come davanti al massacro. Come se il giorno non finisse mai, come se accettarne la fine equivalesse a sottoscrivere la strage. Nella notte mi telefona Gianni Parisi, vice presidente del governo appena eletto, e mi passa il presidente della Regione Sicilia, Giuseppe Campione. Mi chiedono di scrivere un "Appello ai Siciliani" dopo l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Dopo un lungo colloquio fatto di accorate motivazioni, Campione dice: "Voglio mettere la mia firma di presidente della Sicilia in calce a un appello scritto con te. Anche questa è una scelta di campo". Dice Parisi: "Questo è il primo atto di un governo sperimentale, che mette insieme il vecchio partito cattolico e il nuovo partito degli ex comunisti. Vogliamo che porti l’accento di una scelta culturale oltre che politica". Troppa grazia in questa congestione mentale. Vorrei non scrivere nulla di pubblico, nulla che sciogliesse in parole la nostra vergogna. Ma Borsellino, appena cancellato dalla terra, non gradirebbe questo accesso di malìa. "Vengo da una terra presa da peste". E’ folle vivere in una città così violenta, così spossata, ma più folle sarebbe, amandola, starle lontano. La mattina dopo. E’ prestissimo. Sono a Palazzo d’Orleans. Si apre la porta e appare Giuseppe Campione, da ieri presidente, il mio interlocutore notturno. Gli porgo i due fogli, ma lui me li lascia in mano e mi introduce al di là della porta. E’ una piccola stanza, dove è riunita - capisco - una commissione d’ascolto: a parte Campione, ci sono Sergio Mattarella, Gianni Parisi, Nino Buttitta. Leggo con fatica, con rabbia, con vergogna, con la mente a Borsellino… Sto pensando che il destino degli scrittori (grandi o piccoli che siano) è sempre quello originario: di scrivere lapidi. E che le loro parole sono pronunciate sempre troppo tardi o troppo presto; dopo che la storia è compiuta, prima che la speranza si profili…”.


Poi, l’anno dopo, a Leoluca Orlando, che lo rimprovera aspramente perché ha collaborato con un “democristiano”, Perriera risponderà:

“ … quando eri sindaco della d.c., e facevi una giunta, sostenuta anche dai più briganti di questo partito, votato persino da Lima, io ti sostenevo, perché ti ritenevo un cristiano onesto e ribelle … che poteva condurre la d.c. in una situazione giusta o spaccarla e allearti con la parte più aperta e progressista … Bene, ho sostenuto Campione per lo stesso motivo … e il fatto che tu sia un soggetto esplosivo e Campione un soggetto mite non cambia la sostanza del problema … sono orgoglioso di avere scritto quel manifesto, sono orgoglioso che lui e Parisi me lo abbiano chiesto. E del resto lui ha voluto firmare un manifesto che gli consegna responsabilità morali, politiche e democratiche che - a nome di quelli di noi che non hanno ceduto - io ho liberamente scritto … dico di più: penso che quel manifesto rimarrà come testimonianza cristallina di una collaborazione non strumentale fra politica e cultura, che assegna giustamente alla cultura libera di consigliare alla politica … Campione ha agito così con me. Ha agito bene”.


L’Appello ai Siciliani, il 21 luglio del 1992, andrà per intero sui principali quotidiani nazionali e siciliani. Stralci figureranno sulla stampa estera. Poi sarà affisso in tutta la Sicilia e sarà distribuito nelle scuole siciliane. Il 15 Maggio ’93, poi, nel XLVII anniversario dello Statuto Siciliano, diventerà manifesto celebrativo dell’evento. Il successivo 19 luglio, ad un anno dalla strage di via D’Amelio, una lapide con il testo sarà affissa a Palazzo D’Orleans. L'On. Giuseppe Campione, allora Presidente della Regione Siciliana, nel giorno in cui fu fatto saltare in aria Paolo Borsellino si mise in contatto con la famiglia del magistrato ucciso per esprimere affettuosa solidarietà.



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