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LA CATANIA BENE DI SEBASTIANO ARDITA E' UN MODELLO MAFIOSO DOMINANTE

Martedì 24 novembre alle ore 18 al Feltrinelli Point Messina si terrà l'incontro “attorno” ad un libro che suscita approfondimenti e riflessioni: “Catania bene” di Sebastiano Ardita (Mondadori). Dialogano con l’autore due giornalisti: Riccardo Orioles per "I Siciliani Giovani" e Nuccio Anselmo per la "Gazzetta del Sud". 



"Si potrebbe chiamare «Cosa nostra 2.0». - scrive nel suo libro Sebastiano Ardita, Procuratore aggiunto di Messina - Come un fuoco che cova sotto la cenere, sta divorando la legalità nel Paese. Agisce sottotraccia, s'insinua e si mimetizza nell'economia e nella politica, vuole far dimenticare gli anni delle stragi, anzi la sua stessa esistenza. Adotta la strategia dell'«inabissamento» e delle collusioni. Un metodo sperimentato con successo in un contesto forse poco familiare alla memoria collettiva: la Catania dei lontani anni Ottanta".

"E’ esistita ed esiste una mafia che ha anticipato di vent’anni la strategia dell’inabissamento: mentre a Palermo si attaccava lo Stato, a Catania essa è stata capace di identificarvisi fino a far negare la propria esistenza. E riusciva a crescere, irrobustirsi e penetrare nelle istituzioni e nel mercato, pur rimanendo ortodossa e fedele alle regole dell’organizzazione, anzi rispettandole più di quanto non accadesse altrove. E’ questa la cosa nostra che è stata più forte e più radicata anche nel consenso popolare. Una mafia padrona che da sempre si traveste e vive in mezzo a un popolo aperto e generoso, un po’ vittima e un po’ complice. Tutto questo non è avvenuto per caso. Dietro ci sono ragioni profonde e c’è una strategia che dura da decenni e che adesso è diventata una strategia comune anche alle altre famiglie dell’isola. Ma mentre le altre province si adeguano alla sua linea, questa mafia catanese si trasforma ancora, fino quasi a sparire alla vista: è già Cosa nostra 2.0, o forse lo è stata da sempre".

Sebastiano Ardita, magistrato in prima linea nel contrasto al fenomeno mafioso, ci conduce nelle viscere di quella città dai volti contrastanti, con il benessere dei quartieri alti che si contrappone al disagio sociale delle periferie, dove i ragazzi abbandonati al loro destino sono facile preda del reclutamento malavitoso. Una città abitata da gente operosa e intraprendente, ma costretta a subire e indotta a ignorare per troppo tempo la presenza della criminalità organizzata. Ed è in questa realtà che Nitto Santapaola, vincitore della guerra interna alla mafia catanese combattuta tra il 1978 e il 1982, elabora la sua linea operativa nei confronti delle istituzioni, diametralmente opposta a quella di Riina e Provenzano: «Mentre a Palermo i Corleonesi attaccavano lo Stato e ne stimolavano gli anticorpi, a Catania si costruivano relazioni occulte». 

Un'organizzazione, quella di Santapaola, capace di infiltrarsi nei centri nevralgici del potere della «Catania bene» e di assumere un profilo imprenditoriale e rassicurante, ma spietata con chi si frapponeva al suo cammino, come il coraggioso giornalista e Direttore de "I Siciliani" Pippo Fava, "abbastanza isolato da vivo da far credere che lo sarebbe stato anche da morto... un rompiscatole e i potenti di Catania lo detestavano”, come spiega Ardita “Ecco perché bisognava cancellare ogni traccia mafiosa di quell’omicidio: depistare, mistificare, creare falsi moventi. E fare in modo che quella maledetta indagine sul suo assassinio non trovasse mai la strada dritta”.

O come l'ispettore Giovanni Lizzio, o lo stesso prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, che aveva capito quali interessi si muovevano alle pendici dell'Etna. “Dalla Chiesa fu forse il primo uomo di Stato a ben comprendere i tratti di Cosa nostra catanese e a intuire l’importanza delle relazioni che avrebbe potuto stabilire «con il mondo degli affari e quello istituzionale», che egli identificava anche nei potenti cavalieri del lavoro Graci, Rendo e Costanzo”, afferma Ardita. 

Gli uomini di Cosa nostra catanese si accreditavano come garanti dell'ordine pubblico, fino ad attuare una vera e propria «co-gestione» con le autorità. «Concreti, dediti agli affari e interessati al profitto più che alle forme,» scrive Ardita «essi hanno costruito da sempre un patto con le istituzioni ispirando, da precursori, quella che viene comunemente definita la trattativa Stato-mafia.» Tramontato il dominio dei Corleonesi, il modello ideato dai catanesi si è rivelato vincente e adesso, dopo essersi esteso all'intera Sicilia, ha un progetto ancora più ambizioso, che punta a stravolgere la stessa democrazia: «Ripulitasi dalle scorie del passato, Cosa nostra somiglierà sempre più a una loggia segreta dove tutto fa capo alla finanza, e attraverso di essa potrà portare l'assalto al potere politico. Ne otterrà favori, anche a danno dei contribuenti, e lo finanzierà. E poi servendosi della politica tenterà di influenzare tutti i poteri istituzionali»

Sebastiano Ardita

Partendo dalla Catania di ieri, il saggio di Ardita denuncia con coraggio e lucidità i pericoli che incombono sull'Italia di oggi. «La mafia di oggi parla la lingua della famiglia dei catanesi. La sua interpretazione della leadership di Cosa nostra, fatta di relazioni istituzionali, di azione sottotraccia, di investimenti, non è affatto espressione di una linea morbida. È il suo esatto opposto. È un modello pericolosissimo di governo criminale che sa essere spietato, ma anche politico e strategico e quindi duraturo. È la Cosa nostra che ha vinto e che è difficile disvelare tutta intera.»

Sebastiano Ardita (Catania 1966), entrato in magistratura all'età di 25 anni, ha iniziato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, divenendo poi componente della Direzione distrettuale antimafia, ove si è occupato di criminalità organizzata di tipo mafioso, di inchieste per reati contro la pubblica amministrazione e di infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti e forniture. Come consulente della Commissione parlamentare antimafia della XIII Legislatura ha redatto il documento relativo all'indagine sulla mafia a Catania. È stato direttore generale dell'ufficio detenuti, responsabile dell'attuazione del regime 41bis. Attualmente è procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina. È autore di "Ricatto allo Stato" (Sperling & Kupfer 2011).


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