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DALLA RACCOLTA DI GIUSEPPE PITRE' LE FIABE SICILIANE A CURA DI AMELIA CRISANTINO

Venerdì 23 gennaio, alle ore 20:30, presso il Circolo Canottieri Thalatta di Messina, si presenta il libro di Amelia Crisantino "Fiabe siciliane. Dalla raccolta di Giuseppe Pitrè" (Di Girolamo Editore).


                                                     
All'evento, organizzato dalla Libreria Ciofalo di Messina, interverranno il geografo Giuseppe Campione, Ordinario alla IULM a Milano e gli antropologi Mario Bolognari, Direttore del Dipartimento di Civiltà Antica moderna dell'Università di Messina e Sergio Todesco, Direttore della Biblioteca Regionale “Giacomo Longo” di Messina. Letture dei testi a cura dell'Associazione Culturale “Terremoti di carta”. Sarà presente la storica e giornalista Amelia Crisantino, autrice di "Fiabe siciliane. Dalla raccolta di Giuseppe Pitrè".

A lungo l'etnologo Giuseppe Pitrè lavorò per raccogliere il "prezioso tesoro del popolo siciliano" e nel 1875 pubblicò le "Fiabe, novelle e racconti" in quattro volumi. Tanta fatica non fu compresa. Un indignato disprezzo accolse la pubblicazione, la «Gazzetta di Palermo» scrisse che si trattava di "quattro volumi di porcherie". Solo lontano dalla Sicilia le Fiabe furono apprezzate. Oggi sono cadute nell'oblio, ma custodiscono un nucleo identitario davvero prezioso in un'epoca globalizzata che tutto appiattisce. Amelia Crisantino ha scelto le più belle: le ha tradotte dal dialetto di metà '800, ha tolto le incrostazioni di un dettato linguistico non più praticato e spesso di ardua comprensione, rendendole di nuovo godibili.

"Per la prima edizione delle Fiabe novelle e racconti, nel 1875, la Gazzetta di Palermo scriveva: "Il dottor Pitrè ha pubblicato quattro volumi di porcherie". Molto tempo dopo, lo stesso Pitrè avrebbe ricordato quei clienti rispettabili che gli chiedevano come mai si fosse persuaso a diffondere pagine così imbarazzanti: era un medico, curava le loro figlie. Perchè si metteva a correre dietro storie di mammedraghe e principesse incantate? Nel 1875 il palermitano Giuseppe Pitrè aveva 34 anni e con fervore si dedicava a edificare la "demopsicologia", la nuova scienza da lui stesso battezzata che aveva il compito di studiare la psicologia del popolo: come ogni psicologia che si rispetti, anche quella del popolo era da rintracciare con un paziente lavoro di scavo. Bisognava fare in fretta, prima che l'accellerato scorrere del tempo cancellasse la memoria e con essa ogni traccia di un'esistenza diversa. Giuseppe Pitrè sentiva la responsabilità storica della sua missione ed era esigente con se stesso. Come programma di vita aveva scelto una massima operosa, nulla dies sine linea: nessun giorno senza scrittura, senza avere lavorato a un tassello, del grande mosaico. Era uno studioso in tutte le sue fibre, ma per vivere faceva il medico e aveva un'incredibile capacità di lavoro che lo avrebbe sorretto per tutta la vita. Anche la carrozza che lo portava dai suoi pazienti era ingombra di fogli e taccuini d'appunti: c'era sempre un libro a cui stava lavorando, sempre incalzato dall'urgenza di registrare il patrimonio cultutrale del popolo prima che svanisse. La sua prima pubblicazione risaliva al 1863, quando ad appena ventun anni aveva pubblicato il Saggio d'un vocabolario di marina italiano-siciliano; nel 1870 lo troviamo segretario della "Società per gli studi del dialetto siciliano" e nel 1871 debutta la Biblioteca delle tradizioni popolari che avrebbe chiuso le sue pubblicazioni col volume numero XXV, nel 1913. I quattro libri delle fiabe che costituiscono i tomi dal IV al VII e, come tutti gli altri, danno voce a una Sicilia inedita e per qualche verso poco rassicurante, che promette di avere in serbo molte sorprese.

Pitrè inseguiva il tesoro di una sapienza antica e profonda ma, come accade quando si va alla ricerca dell'inconscio, non sempre quanto emergeva era in linea con le attese "politicamente corrette" dei suoi lettori. Nel 1875 le ricerche sulla cultura popolare avevano assunto una valenza addirittura politica perchè, nello Stato da poco compiuto, la Sicilia costituiva già un'emergenza e in tanti si interrogavano sulla sua diversità. A Palermo c'erano state prove plateali di disaffezione, come la rivolta del settembre 1866 col suo seguito di Commissioni d'inchiesta, scandali, leggi speciali per un'isola sempre riottosa. Di lì a poco sarebbero arrivati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, a indagare le radici storico-sociali della violenza diffusa e della mafia; nel marzo del '75 Pasquale Villari aveva inviato la prima delle Lettere meridionali, sulla camorra, che nel segnare la nascita del meridionalismo tracciava un ritratto drammatico e completamente diverso dall'oleografia tradizionale sul Sud d'Italia. Quindi il folklore non era un campo neutro, le tradizioni non avevano tutte la stessa dignità. Potevano nutrire l'evolversi di una collettività povera ma ben avviata verso territori infidi, difficili da assimilare per uno Stato che voleva dirsi moderno. I folkloristi si sentivano in prima linea nel difendere l'onore della patria siciliana. Non appena Costantino Nigra, studioso di canti popolari piemontesi, constatava che il Meridione aveva prodotto solo canti lirici e che mancava di una tradizione civile, ecco che nelle vesti di abile falsario Luigi  Capuana provvedeva a ritrovarne addirittura centinaia: poi pubblicati da Lionardo Vigo nelle sue Raccolte e utilizzati per rivendicare alla Sicilia un primato civile oltre che linguistico. I contenuti della "patria siciliana" erano infatti sempre eccelsi anche se appena inventati, senz'accorgersi che così-invece di superarle-aumentavano le distanze. Del tutto diverse sono le esigenze da cui muove la ricerca di Pitrè, che si propone di registrare la voce del popolo con scrupolosa fedeltà. Lo studioso è attento a ogni aspetto, nei quattro volumi delle Fiabe sorveglia soprattutto la lingua adoperata. Pitrè intuisce che la lingua è parte essenziale del patrimonio culturale del popolo, che i nomi hanno la stessa dignità degli oggetti e sono anch'essi vivi e fragili: amorosamente affannato li fotografa in tutte le loro varianti, annota le differenze fra le parlate, s'ingolfa nei riscontri fra le diverse versioni di una stessa storia, ha come sommo desiderio il riuscire a codificare una grammatica siciliana e teme solo le oscenità, che in maniera violenta svelano l'irriducibile essere "altro" della mitizzata cultura popolare. Le Fiabe sono frutto del momento storico in cui vengono pubblicate, quando alla lingua e alle tradizioni è affidato l'impegnativo compito di favorire la lnascita delle diverse identità nazionali. Nel 1812 era stato pubblicato il primo volume della raccolta dei fratelli Grimm, la loro Prefazione iniziava con la malinconica constatazione che "forse era arrivato il momento di metterle per iscritto; coloro che devono conservarle, infatti, si fanno sempre più rari": parole da cui affiora un sentimento di precarietà comune a tutti gli studiosi di tradizioni popolari. Ispirato dai fratelli Grimm, nel 1850 Alexander Afanasyev cominciava il censimento dell'enorme patrimonio di fiabe e racconti popolari russi. La Sicilia aveva avuto la sua prima raccolta per iniziativa di una donna. Tra il 1868 e il 1869 Laura Gozenbach, nata a Messina da una famiglia svizzera trapiantata in Sicilia al seguito del padre agente di commercio tessile, aveva raccolto novantadue fiabe pubblicate nel 1870 a Lipsia, in una versione tedesca da lei stessa curata e con le sue ultime due in dialetto siciliano: erano le fiabe della sicilia ionica, la sua fonte erano state le donne che prestavano servizio nelle case della ricca comunità straniera.

Dunque anche il popolo siciliano aveva mostrato d'essere protagonista del folklore, ma nel 1875 le Fiabe raccolte da Pitrè non piacquero - almeno in Sicilia - perchè risultavano inadeguate alle urgenze ideologiche di quegli anni: mostravano troppo e al contempo non abbastanza, spesso mancavano di una morale socialmente accettabile e non erano edificanti. Tutte cose che non c'era alcun bisogno di "mettere per iscritto", visto che sembravano inventate apposta per dare ragione alle critiche sulla pochezza morale della società siciliana. Pitrè era in fondo un outsider, circostanza che ci riconduce alla scarsa fortuna di uno studioso che ha fotografato la Sicilia come nessun altro, che è stato onorato nelle dichiarazioni d'intenti ma poi ignorato: dai difensori dei molteplici primati isolani perchè non allineato, da altri per certe ingenuità. Come quando si produsse in un colorito ritratto del prototipo del mafioso, quasi fosse un tizio a metà fra il guappo e il paladino, fornendo un'autorevole definizione minimizzante a molteplici pretesi seguaci in malafede. Tranne pochissime eccezioni, come la storia di Colapesce, le sue Fiabe sono state dimenticate per ignavia o per oscuro riflesso istintivo. Hanno avuto un momento di gloria intorno al 1955, quando sono state un magnifico terreno di caccia per Italo Calvino che nelle Fiabe italiane le ha valorizzate: ma troppo spesso il grande scrittore ha lasciato spazio al mestiere, finendo per riscriverle.

Le fiabe che qui si pubblicano sono solo una parte delle "tradizioni" raccolte da Pitrè, altre che per problemi di spazio non vengono inserite sono altrettanto belle e significative. Le ho scelte senza essere sorretta da competenze specialistiche, lasciandomi condurre nell'universo della narrazione orale dove la magia è di casa. La loro tradizione dal siciliano del 1875 ha posto un problema di lingua e di stile; ho cercato di essere fedele ma senza tentare alcuna operazione filologica, di mantenere la cadenza del parlato e la vivacità del lessico. La società che emerge da queste narrazioni è fluida, con poche inibizioni, affida le sue speranze di riuscita al caso felice che cambierà la Sorte: elemento che forse rimanda alla funzione subalterna di chi narra, o forse a tutto un agire sociale per qualche verso soffocato dalle necessità di una Storia che, per la Sicilia, si sviluppa dentro un ritmo determinato dall'esterno, soprattutto donne, nella Prefazione ai quattro volumi Pitrè le colloca fra "il popolo minuto e privo affatto d'istruzione". sono donne della sua cerchia familiare o vicine di casa nel palermitano quartiere Borgo, lo studioso ricorda in particolare tre nomi: la cieca Rosa Brusca che da giovane era stata tessitrice; Elisabetta Sanfratello di Vallelunga detta Gnura Sabedda, domestica; Agatuzza Messia, cucitrice di coltroni d'inverno che era stata sarta. La sua narratrice-modello è la Messia, di cui Pitrè delinea un ritratto molto efficace: ha settant'anni e un vero talento, "ha parola facile, frase efficace, maniera attraente di raccontare", ottima memoria. si esprime con tutto il corpo: "Si alza, gira intorno per la stanza, s'inchina, si solleva facendo la voce ora piana ora concitata, ora paurosa, ora dolce, ora stridula, ritraente la voce dé personaggi e l'atto che essi compiono". E' una popolana, "non sa leggere ma sa tante cose che non le sa nessuno, e le ripete con una proprietà di lingua che è un piacere sentirla". Da giovane è andata col marito a Messina, vi è rimasta per qualche tempo e, fra le comari che mai s'erano spostate dal loro vicolo, aveva portato la sua esperienza da viaggiatrice. All'origine della vocazione di Pitrè per le tradizioni popolari c'è questa donna: "La Messia mi vide nascere e mi ebbe tra le braccia ...ella ha ripetuto al giovane le storielle raccontate al bambino di trent'anni fa". Nelle fiabe di Agatuzza Messia troviamo poca magia e molte avventure, ragazze intraprendenti cancellano lo stereotipo sulla passività delle siciliane e diventano protagoniste. Ci sono mogli e figlie che, in caso di "bisogno", vengono murate in casa per meglio custodirne l'onore, ma rimangono in primo piano; può capitare che siano loro a suggerire la temporanea soluzione a uomini condizionati dal giudizio di altri maschi, senza perdere molto della loro potenziale autonomia.

Ne "Il Pappagallo" che narra tre racconti è il pappagallo del titolo a narrare alla protagonista, che ha suggerito al marito di chiuderla in casa ed è indecisa se uscire, di una ragazza che si permette di dire "io parto" addirittura a un re: ma, come in un gioco di specchi deformanti, glielo racconta per convincerla a non uscire. In alcune storie possiamo trovare femminili negative, ma accade soprattutto se il narratore è uomo. Altrimenti, come avviene in Caterina la sapiente, le ragazze distanziano l'uomo che, nel vano tentativo di sottometterle, si rifugia nel suo ruolo socialmente riconosciuto: Giocatrici d'azzardo come Bianca Cipolla, eroine romantiche come L'imperatrice Rosina o l'omonima protagonista di Malvina - che esce dal suo palazzo col bastone e le due conchiglie dei pellegrini per Santiago di Compostela - le donne tracciano il profilo di un diffuso protagonismo che risalta come una delle più intriganti chiavi di lettura delle fiabe raccolte da Pitrè. Le narratrici parlano di mamme draghe ma dicono molto altro, anche la lunga durata di quelle mancanze che nella Sicilia dell'800 soffocano la vita: come quando l'assenza di strade rotabili fuori dall'abitato porta a immaginare terribili pericoli, l'appena ricordata Malvina addirittura sente gli striduli versi dei selvaggi che si nutrono di carne umana. e per ricordare quant'era prezioso il grano troviamo che dai capelli di Caterina, protagonista de "La figlia di Biancofiore", il miracolo compiuto da una fata lascia cadere oro, diamanti, pietre preziose e chicchi di frumento.

Naturalmente molti elementi rimandano al canone delle fiabe classiche, da assumere però con qualche cautela. Ne "L'infanta Margarita" c'è lo specchio di Biancaneve, ma in "Ninetta e il ramo di dattero" Cenerentola s'è trasformata in una fantasia che diventa gioco di parole, Ninetta è la più smaliziata delle Cenerentole: nessuno la maltratta, non ci sono matrigne nè ingiustizie; è solo una ragazza bella e calcolatrice ben attenta alle sue strategie. Sono storie raccontate da donne e sui motivi della maternità indugiano volentieri le fiabe qui pubblicate: il desiderio di un figlio ritorna nelle protagoniste più diverse, nemmeno le mamme draghe o le sirene ne sono immuni. In "Sole, Perla e Anna" troviamo l'amore materno che, in un tripudio di sentimenti viscerali, si trasforma in delirio criminale; in "Sfortuna" è una madre a compiere il sacrificio più grande, allontanando la figlia perseguitata dalla Sorte. nelle Fiabe di Pitrè non rintracciamo le tensioni a cui nel 1884 avrebbe dato voce il modicano Serafino Amabile Guastella  con "Le parità e le storie morali dei nostri villani, che hanno il loro protagonista nella miseria contadina e realizzano, per dirla con Leonardo Sciascia, un "antivangelo".

L'universo narrativo di Pitrè ha inizio con le donne di casa e di rado riflette le tensioni di un mondo contadino che rimane estraneo ma, quando si mostra, è veritiero: in "Peppi" sperso per il mondo, definita da Calvino "uno dei monumenti della narrativa popolare italiana", riconosciamo la questua per il lavoro, i contratti-capestro, la solidarietà del vecchio animale e la necessità del suo sacrificio. In Peppi il miracolo è un frutteto, cresciuto in una notte nella Sicilia del latifondo; la prova da superare coincide con l'arare una grande estensione di terra, mentre sullo sfondo i nobili oziosi vivono di scommesse e puntigli. La grande varietà di motivi narrativi include il surreale gioco di parole de "La gatta e il topo", racconti dove l'amore è protagonista come "La sorella del conte" e altri dove, con grande disinvoltura, vengono raccontate anche le vicende più truci: Sarinella sembra un abbozzo di sceneggiatura horror, Fra' Genipero è un film splatter di quelli con effetti così forti da diventare caricaturali, dove la tensione si libera in una risata.

Ci sono le fiabe moderne come "Tippete nappete", che prende in giro la moda "rivoluzionaria" di dare nuovi nomi agli oggetti consueti, e ci sono le fiabe che lasciano riemergere motivi antichissimi, dove strappare un ciuffo d'erba consente di accedere al mondo "di sotto": così avviene ne "Il cespuglio della rapa selvatica", con il protagonista Vincenzo che ottiene capacità magiche di tipo sciamanico dopo un periodo di iniziazione. Vincenzo è un briccone, un ladro: riesce a vincere il vecchio Patri-Drau, in una lotta generazionale dove il discepolo uccide il maestro dopo essersi appropriato dei suoi poteri. Non è il solo imbroglione - protagonista, è in buona compagnia. La truffa sfuma nella prova di abilità e furbizia in Tredicino, è ferocemente punita ne La figlia di Biancofiore, trionfa come istinto predatorio in La borsa, il mantello e il corno fatati.

Ho riportato tutte le storie di Giufà, che non sempre sono aneddoti innocui con un semplicione per protagonista. In "Giufà e il canta-mattina"  ad esempio, un disturbatore viene eliminato e la madre, che dovrebbe impersonare un sano principio di realtà, non si scompone più di tanto e risolve la faccenda camuffando l'omicidio. Solo Colapesce ha una provenienza diversa rispetto ai quattro volumi delle Fiabe, Pitrè vi dedica uno studio a parte che merita un rapido cenno. La storia dell'uomo capace di resistere sott'acqua senza respirare è molto antica. Nel tardo XII secolo il poeta provenzale Raimon Jordan scrisse di un certo Nicola da Bari, negli stessi anni la notizia fu ripresa da un canonico inglese che ne riferì come di una leggenda già popolare. in seguito sono in tanti a tramandare  storia dell'uomo- pesce, che viene conosciuta in tutto il Mediterraneo ed è spesso arricchita di particolari. fra i siciliani il primo a scrivere è il frate domenicano Tommaso Fazello, nella seconda metà del Cinquecento, che spiega la capacità di rimandare a lungo sott'acqua con una particolare struttura dei polmoni. La storia di Coalpesce rimane sempre ambientata nel mare di Messina, in quello Stretto pieno di correnti che per la mitologia era sorvegliato da Scilla e Cariddi. Negli "Studi di leggende popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane" (Torino 1904) Pitrè riporta 23 versioni letterarie e 18 popolari. Ho scelto la n. 8 delle varianti popolari".  Amelia Crisantino
                                 


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1 Commenti
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  1. Una lunga e complessa analisi per la conoscenza della letteratura d' infanzia. C'è nei vari scrittori e quindi anche in Pitrè la volontà di parlare a cuore aperto ai ragazzi e nella didassi più nobile insegnare loro ad accarezzare i sogni con animo spensierato e sotto gli alberi frondosi del 'carrubbo'. Quante vicessitudini, variabili impazzite correre dietro momenti di cambiamento: complessi e'traballanti' nella storia di Sicilia : erra d'amuri e di suduri. Vento caldo e frustante, spinto da voci e da lamenti tra i fichi d'india e sotto i pini verdissimi dentro l'acqua marina...! Smorfie ed aneddoti popolari, schiamazzi e sollazzi dentro le osterie e nei cortili aperti ai ragazzi giocosi e le sedie in fila dei nonni fumatori e delle nonne coi ferri per giacchettine di lana...più in là , frisca u carrettiere e sona u marranzanu...- Fiabe s'intersecano con il vissuto e l'immaginario dentro e fuori le acque del nostro bluissimo Stretto; noi sogniamo ancora e voi...? Roberto Lo Presti da Messina

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